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domenica 10 giugno 2012

Henry Lennox: Le carceri meridionali durante il regime sabaudo

Tristemente note sono le lettere scritte nel 1851 dal politico conservatore inglese William Gladstone, nelle quali egli, dicendo di aver visitato alcuni penitenziari napoletani, raccontava di essere rimasto scioccato dalle condizioni in cui versavano i detenuti. Per Gladstone, lo stato borbonico si presentava in una terribile situazione sociale; in particolare egli si espresse con tali dure parole:

« Non descrivo severità accidentali, ma la violazione incessante, sistematica, premeditata delle leggi umane e divine; la persecuzione della virtù, quand'è congiunta a intelligenza, la profanazione della religione, la violazione di ogni morale, sospinte da paure e vendette, la prostituzione della magistratura per condannare uomini i più virtuosi ed elevati e intelligenti e distinti e culti; un vile selvaggio sistema di torture fisiche e morali. Effetto di tutto questo è il rovesciamento di ogni idea sociale, è la negazione di Dio eretta a sistema di governo. »

L'austero William Ewart Gladstone.Nonostante le accuse di Gladstone suscitarono immediatamente forti dubbi ed ebbero diversi tentativi di confutazione in Italia ed in Europa, i suoi assunti ebbero larga eco in tutto il continente, contribuendo enormemente al sentimento antiborbonico e filorisorgimentale.

Già nel 1852, però, Gladstone ritrattò alcune delle sue affermazioni ed ammise di essere stato in parte abbindolato; nel 1863, rivelò in parlamento di aver costruito le proprie dichiarazioni sulla base delle tesi sostenute da alcuni degli esponenti liberali napoletani. Infine, tornato a Napoli tra il 1888 e il 1889, confessò di non essere mai stato in alcun carcere e di aver scritto le due missive dietro incarico di lord Palmerston, confermando, quindi, che i suoi assunti erano basati sulle affermazioni dei politici antiborbonici.

Molto poco noto, invece, è un discorso tenuto il giorno 8 maggio 1863, da un altro politico inglese, Henry Lennox, che denunciò al parlamento britannico, la terribile condizione in cui versavano i penitenziari meridionali in seguito all'Unità d'Italia.

Nel 1863, Lord Henry Lennox, per sua stessa ammissione, convinto sostenitore di Vittorio Emanuele II di Savoia, visitò, autorizzato dal Generale La Marmora, alcune carceri campane e, fatto ritorno in patria, espose le impressioni ricavate dalla sua visita alla camera dei comuni. Ciò che il politico britannico si trovò davanti agli occhi, lo spinse a dubitare della veridicità delle decantate condizioni di giustizia e libertà in cui avrebbe dovuto versare lo Stato unitario. Egli criticò aspramente il nuovo governo sottolineando come qualsiasi voce dissidente fosse immediatamente messa a tacere attraverso un sistema di arresti arbitrari che contemplavano l'incarcerazione senza processo.

« Nel sud del regno, è stato inaugurato un sistema di sangue, al quale deve essere posto un limite. »
(Cavendish Bentinck, deputato inglese, in un suo intervento alla camera dei comuni l'8 maggio 1863.)

Caricatura di Lennox, disegnata da Carlo Pellegrini per il periodico britannico Vanity Fair nel 1870.Per il carcere partenopeo di Santa Maria Apparente, Lennox dovette constatare che, in quel penitenziario, erano reclusi, da oltre 18-24 mesi, uomini, ritenuti rivoluzionari, che erano stati arrestati ed imprigionati senza mai aver subito un interrogatorio, senza mai essere stati processati e senza che fosse stato loro formalizzato alcun capo d'imputazione. Egli notò come molti detenuti "politici", più che avere l'aspetto di pericolosi rivoluzionari, apparissero come sventurati di umili condizioni e spesso in là con gli anni; riportò inoltre, che le numerose petizioni che richiedevano lo svolgimento dei processi per questi detenuti, una volta inviate a Torino, venivano puntualmente ignorate.

La situazione registrata al carcere della Concordia apparve, agli occhi del Lennox, ben più grave: gli accusati di reati politici erano detenuti in condizioni promiscue con i criminali comuni, tra i quali vi era, finanche, un omicida; tra i detenuti politici, invece, vi erano anche religiosi, anch'essi prelevati dai propri domicili ed imprigionati senza processo e imputazione di capo d'accusa. Nelle carceri femminili, invece, le donne accusate di reati politici erano detenute promiscuamente con le prostitute e le criminali comuni. Della visita al penitenziario femminile di Santa Maria ad Agnone, Lennox riporta il caso delle sorelle Francesca, Carolina, e Raffaella Avitabile, detenute da 22 mesi perché accusate di aver esposto alla finestra della loro abitazione il vessillo delle Due Sicilie.

Spostatosi su Salerno, invece, le condizioni dei detenuti apparvero drammatiche. Il direttore del carcere riferì di un sovraffollamento del suo penitenziario: il numero dei detenuti, 1359 persone, era più che doppio rispetto alla capacità massima della struttura (650 detenuti); ciò aveva comportato lo scoppio di una epidemia di febbre tifoide, che, solo nell'ultima settimana, aveva ucciso, oltre che diversi detenuti, anche il medico della prigione ed un secondino. In una prima cella erano stipate oltre 25 persone, tra civili sospettati di reati politici, religiosi e delinquenti comuni. In un altro locale, trascorrevano la loro intera giornata, fatta salva l'ora d'aria in cortile, 157 uomini, sempre promiscuamente detenuti. Squallore e sporcizia, ancora, erano evidenti in un altro stanzone che conteneva 230 prigionieri in misere condizioni: gli abiti di costoro erano talmente logori, che taluni di essi rasentavano la nudità. A parere di Lennox, il cibo portato ai prigionieri era tale che, in Inghilterra, non sarebbe stato dato in pasto neanche agli animali.

Con circa 1200 prigionieri, anche il carcere della Vicaria era sovraffollato, contenendo circa il doppio dei detenuti di cui era capace, dei quali molti erano ancora in attesa di processo. Il grosso di essi era stipato in 5 stanzoni intercomunicanti in pessime condizioni di igiene. Inoltre, non veniva garantito il necessario grado di sicurezza, poiché, rispetto alla mole di detenuti, il personale di sorveglianza era insufficiente.

Lennox, sostenendo che l'Italia unita doveva la sua esistenza all'Inghilterra, affermò che all'Inghilterra era necessario denunciare tali barbare atrocità: un intervento di Londra avrebbe evitato che la condizione delle popolazioni meridionali, vittime di feroci crudeltà e sovraccaricate da una pesante imposizione fiscale, peggiorasse ulteriormente; avrebbe evitato che una splendida terra fosse lasciata in preda al peggior dispotismo e alle più esasperante sofferenze. In particolare egli invitò Gladstone, che fu così pronto a riferire delle carceri borboniche, a non restare immobile e a farsi portatore anche delle istanze di questi detenuti. Naturalmente ciò non avvenne mai.

Per approfondire: Italy in 1863. Speech Delivered by Lord Henry Gordon Lennox.

AnTuDo
[Bart]

mercoledì 6 giugno 2012

La Strage di Pontelandolfo


All'alba del 14, Pontelandolfo è circondata. Dopo che un plotone, accompagnato dal De Marco, ha contrassegnato le case dei liberali collaborazionisti da salvare, i bersaglieri entrati in Pontelandolfo fucilano chiunque capiti a tiro: preti, uomini, donne, bambini. Le case sono saccheggiate e tutto il paese dato alle fiamme e raso al suolo. Tra gli assassini vi sono truppe ungheresi che compiono vere e proprie atrocità. I morti sono oltre mille. Per fortuna alquanti abitanti sono riusciti a scampare al massacro trovando rifugio nei boschi.
Nicola Biondi, contadino di sessant’anni, è legato ad un palo della stalla da dieci bersaglieri. Costoro ne denudano la figlia Concettina di sedici anni, e la violentano a turno. Dopo un'ora la ragazza, sanguinante, sviene per la vergogna e per il dolore. Il soldato piemontese che la stava violentando, indispettito nel vedere quel corpo esanime, si alza e la uccide. Il padre della ragazza, che cerca di liberarsi dalla fune che lo tiene legato al palo, è fucilato anche lui dai bersaglieri. Le pallottole spezzano anche la fune e Nicola Biondi cade carponi accanto alla figlia. Nella casa accanto, un certo Santopietro; con il figlio in braccio, mentre scappa, è bloccato dai militari, che gli strappano il bambino dalle mani e lo uccidono.
da uno scritto di ANTONIO PAGANO

domenica 1 aprile 2012

Unità d’Italia: la strage dimenticata di Roseto Valfortore




ROSETO VALFORTORE (FG)
– Il lettore che dopo aver visto il titolo si appresta a leggere l’articolo si aspetta la solita storia retorica di altri eroi che si sono immolati per l’Unità d’Italia. Ma si sorprenderà, invece, nel leggere l’altra storia, quella nascosta, quella censurata, che in questi ultimi decenni sta “urlando” e chiede di venir finalmente alla luce. E’ una storia come tante che, o per vergogna, o per convenienza, o per quant’altro, è stata per decenni tenuta segregata in un cassetto.
Roseto Valfortore è un paesino di mille anime arrampicato sulle montagne dell’Appennino Dauno, in provincia di Foggia. Un luogo accogliente dove gli abitanti hanno ancora il tempo e la volontà di regalare un sorriso ai visitatori che vi giungono. Ma è anche un territorio che ha dentro di sé una ferita storica che mai nessuno gli ha riconosciuto; questa è la vicenda di 4 ragazzi di appena vent’anni e di un adulto, padre di famiglia, che furono trucidati dai garibaldini a causa delle loro simpatie per i Borbone.
Tutto avvenne la sera del 7 novembre 1860 quando i 5 furono allineati ad un muro e passati alle armi da chi era appena sopraggiunto e definiva se stesso “un liberatore”. A nulla valsero le suppliche di pietà che i ragazzi invocarono ai carnefici, a nulla valsero le grida delle donne che assistettero impotenti all’esecuzione.
Questa triste vicenda, ancora una volta, non sarebbe mai venuta fuori se non ci fosse stata la caparbietà e la voglia di sapere di uno studioso, il prof. Michele Marcantonio, che scrisse nel 1983 un libro in cui raccontava l’eccidio (Abbasso la guerra, ossia tre passi a ponente Italia Letteraria, Milano 1983).
Libro, ancora una volta, corredato da documenti storici ufficiali che provavano l’accaduto, ma che furono deliberatamente ignorati. I padri della patria, infatti, dovevano apparire ancora una volta senza macchia e senza peccato! Questo fu l’ordine impartito agli storici. Proprio grazie a tali testimonianze scritte si è potuta realizzare una ricostruzione dettagliata di cosa avvenne quel triste giorno; si riporta integralmente uno stralcio tratto da Il Frizzo, giornale di Lucera: “I cinque vennero allineati lungo il muro che guardava alla torretta, di fronte al plotone. L’aria rigida, la pioggia, che ora con furia, il vento, fatto ora cattivo, che tempestava il viso dei condannati con bordate d’acqua gelida e dura come grossi grani di sabbia, e, forse, il contenuto di quel biglietto consigliarono il generale a far presto, a sbrigarsi.
Nell’estremo tentativo di muovere a pietà, tre dei condannati, cioè Giuseppe Cotturo, Vito Sbrocchi e Leonardo Marrone, s’inginocchiarono nel fango: – Pietà! Siamo innocenti! Parole e lacrime alla pioggia e al vento che mugghiava nella siepe e sui tetti. – Pietà di noi! –, fece Nunzio. Il quinto, più di là che di qua (è Liberato Farace, 22 anni appena, ferito a morte presso la propria abitazione dalle camicie rosse) era ricaduto in un’assenza totale e si teneva ritto al muro come un tronco senza vita. Il sergente rizzava in alto la sciabola come un ricurvo dito d’acciaio guardando fisso il generale. Il sergente non batteva ciglio. Ecco… Il generale fece con l’indice un cenno distratto, quasi meccanico. La sciabola piegò verso terra. Fuoco! I primi tre, a partire dall’angolo, caddero fulminati. Al quarto un secondo colpo. Il quinto, Liberato Farace, indenne. Il fuciliere di grazia esplose su di lui il terzo e il quarto colpo. Solo quest’ultimo spinse fuori da quel giovane corpo il lieve alito di vita residuo.” E’ ora di iniziare a raccontare una storia diversa del Risorgimento: è iniziata al Sud un’inarrestabile “rivoluzione culturale” atta a far sì che si cancelli la retorica e che si guardi in faccia la realtà di quello che successe 150 anni or sono. Documenti come questo e come tanti altri devono servire per risvegliare la voglia di verità che gli storici, assoggettati al potere, hanno perso. E’ una questione soprattutto di libertà: soltanto quando uno studioso potrà scrivere le verità storiche senza dover seguire una “linea comune”, allora si sentirà libero.

domenica 14 novembre 2010 di Valerio Rizzo