Il piemontese Lorenzo Del Boca a pag. 8 del suo ormai classico volume Maledetti Savoia (Piemme, 1998), comincia ad elencare i falsi episodi, i luoghi comuni, le leggende costruite dall'iconografia ufficiale circa la storia del Risorgimento italiano come viene ancora oggi studiata da scolari e studenti sui testi scolastici.
Nel
medesimo volume si scopre così ad esempio, come il Regno Borbonico
delle Due Sicilie non fosse affatto arretrato e sottosviluppato come la
propaganda successiva all'unificazione volle dipingerlo. Scrive sempre
Del Boca: «...Il Meridione riceveva gli ospiti in saloni arricchiti da
arazzi, serviva vini pregiati in cristallerie delicate, proponeva
tavole imbandite con pizzi e vasellame di Capodimonte. A Torino usavano
ancora i piatti di legno. Il Sud conservava la raffinatezza culturale
greca e araba e l'Università di Filosofia - fra docenti e studenti -
poteva annoverare il meglio dell'”intelligentia” del tempo. Al Nord
parlavano un dialetto venuto dai barbari d'oltralpe. Nelle province
napoletane si lavorava il ferro, la ceramica, i filati. Le fabbriche di
Pietrarsa e l'Opificio Reale rappresentavano il maggior complesso
siderurgico dell'Europa del sud, in grado di reggere la concorrenza con
Austria e Prussia. Erano dotati di un motore a vapore capace di
sprigionare energia per 160 cavalli. Ci lavoravano 1000 operai e altri
7000 vivevano dei manufatti dell'indotto. La fonderia Orotea di
Palermo, di proprietà della famiglia Florio, era conosciuta nel mondo
per i prodotti di precisione e impegnava 600 operai. Venne poi
smantellata per lasciare spazio all'Ansaldo di Genova. Il mercato
tessile era saldamente in mano al Meridione. Lo stabilimento di
Piedimonte d'Alife, dello svizzero Egg contava 1300 operai 36 filatoi e
500 telai. La maggiore filanda del Nord, la Conti di Milano, impiegava
415 operai.
“ll sud aveva costruito le industrie di Scafati di
Mayer e Zollinger, quella di Pallenzano e quella di Salerno. A San
Leucio, su 80 ettari di terreno, sorse la più imponente seteria di quei
tempi. Il gruppo industriale Guppy, con il socio d'affari Pattison,
avviò un'azienda a Napoli per la costruzione di macchine agricole e
locomotive a vapore: trovarono posto 1200 dipendenti. Cinquecento
metalmeccanici operavano nella Real Fonderia di Castelnuovo,
altrettanti nella Reale Manifattura di armi a Torre Annunziata.

"Briganti" rappresenta il punto di incontro di chi vuole condurre una battaglia per il Sud. E’ il mezzo attraverso il quale trova voce chi vuole raccontare la nostra terra, la sua storia, i suoi problemi, le sue eccellenze, le sue prospettive politiche, sociali ed economiche. Se ami il Sud unisciti a noi.
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venerdì 4 maggio 2012
giovedì 3 maggio 2012
L' ULTIMO SOVRANO (Il Re Brigante)
Le iniquità della Storia non resteranno impunite.
Io sono un principe italiano illegalmente spogliato del suo potere, è qui l'unica casa che mi è rimasta, qui è un lembo della mia patria, qui sono vicino al mio Regno ed ai sudditi miei… vengono chiamati assassini e briganti quegli infelici che difendono in una lotta diseguale l'indipendenza della loro patria e i diritti della loro legittima dinastia. In questo senso anche io tengo per un grand'onor di essere un brigante! (durante la permanenza in esilio nello Stato Pontificio)
I miei affetti sono qui. Io sono napoletano, né potrei senza grave rammarico dirigere parole d'addio ai miei amatissimi popoli, ai miei compatrioti. Qualunque sarà il mio destino, prospero od avverso, serberò sempre per essi forti ed ammirevoli rimembranze. Raccomando loro la concordia, la pace, la santità dei doveri cittadini. Che uno smodato zelo per la mia Corona non diventi fonte di turbolenze. Sia che per le sorti della presente guerra io ritorni in breve fra voi, o in ogni altro tempo in cui piacerà alla giustizia di Dio restituirmi al trono dei miei maggiori, fatto più splendido dalle libere istituzioni di cui l'ho irrevocabilmente circondato, quello che imploro da ora è di rivedere i miei popoli concordi, forti e felici.
(Francesco II delle Due Sicilie, 6 settembre 1860)
Popoli delle Due Sicilie… si alza la voce del vostro Sovrano per consolarvi nelle vostre miserie… quando veggo i sudditi miei, che tanto amo, in preda a tutti i mali della dominazione straniera, quando li vedo come popoli conquistati… calpestati dal piede di straniero padrone, il mio cuore Napoletano batte indignato nel mio petto… contro il trionfo della violenza e dell'astuzia. Io sono Napolitano; nato tra voi, non ho respirato altra aria… i vostri costumi sono i miei costumi, la vostra lingua la mia lingua, le vostre ambizioni le mie ambizioni. …ho preferito lasciare Napoli, la mia propria casa, la mia diletta capitale per non esporla agli orrori di un bombardamento… Ho creduto di buona fede che il Re di Piemonte, che si diceva mio fratello, mio amico… non avrebbe rotto tutti i patti e violate tutte le leggi per invadere i miei Stati in piena pace, senza motivi né dichiarazioni di guerra… Le finanze un tempo così floride sono completamente rovinate: l'Amministrazione è un caos: la sicurezza individuale non esiste… Le prigioni sono piene di sospetti… in vece di libertà lo stato di assedio regna nelle province… la legge marziale… la fucilazione istantanea per tutti quelli fra i miei sudditi che non s'inchinino alla bandiera di Sardegna… E se la Provvidenza nei suoi alti disegni permetta che cada sotto i colpi del nemico straniero… mi ritirerò con la coscienza sana… farò i più fervidi voti per la prosperità della mia patria, per le felicità di questi Popoli che formano la più grande e più diletta parte della mia famiglia.
(Francesco II delle Due Sicilie, 8 dicembre 1860)
Non sono i miei sudditi che mi hanno combattuto contro; non mi strappano il Regno le discordie intestine, ma mi vince l'ingiustificabile invasione d'un nemico straniero.
Voi sognate l'Italia e Vittorio Emanuele, ma purtroppo sarete infelici. I napoletani non hanno voluto giudicarmi a ragion veduta; io però ho la coscienza di avere fatto sempre il mio dovere, ad essi rimarranno solo gli occhi per piangere. (Francesco II delle Due Sicilie)
La ridicolizzazione attraverso cui la storiografia post-risorgimentale ha consegnato ai posteri un'immagine storpiata di quel sovrano, è nient'altro che un'ennesima manifestazione di infierimento su un vinto.(Paolo Mieli)
Io sono un principe italiano illegalmente spogliato del suo potere, è qui l'unica casa che mi è rimasta, qui è un lembo della mia patria, qui sono vicino al mio Regno ed ai sudditi miei… vengono chiamati assassini e briganti quegli infelici che difendono in una lotta diseguale l'indipendenza della loro patria e i diritti della loro legittima dinastia. In questo senso anche io tengo per un grand'onor di essere un brigante! (durante la permanenza in esilio nello Stato Pontificio)
I miei affetti sono qui. Io sono napoletano, né potrei senza grave rammarico dirigere parole d'addio ai miei amatissimi popoli, ai miei compatrioti. Qualunque sarà il mio destino, prospero od avverso, serberò sempre per essi forti ed ammirevoli rimembranze. Raccomando loro la concordia, la pace, la santità dei doveri cittadini. Che uno smodato zelo per la mia Corona non diventi fonte di turbolenze. Sia che per le sorti della presente guerra io ritorni in breve fra voi, o in ogni altro tempo in cui piacerà alla giustizia di Dio restituirmi al trono dei miei maggiori, fatto più splendido dalle libere istituzioni di cui l'ho irrevocabilmente circondato, quello che imploro da ora è di rivedere i miei popoli concordi, forti e felici.
(Francesco II delle Due Sicilie, 6 settembre 1860)
Popoli delle Due Sicilie… si alza la voce del vostro Sovrano per consolarvi nelle vostre miserie… quando veggo i sudditi miei, che tanto amo, in preda a tutti i mali della dominazione straniera, quando li vedo come popoli conquistati… calpestati dal piede di straniero padrone, il mio cuore Napoletano batte indignato nel mio petto… contro il trionfo della violenza e dell'astuzia. Io sono Napolitano; nato tra voi, non ho respirato altra aria… i vostri costumi sono i miei costumi, la vostra lingua la mia lingua, le vostre ambizioni le mie ambizioni. …ho preferito lasciare Napoli, la mia propria casa, la mia diletta capitale per non esporla agli orrori di un bombardamento… Ho creduto di buona fede che il Re di Piemonte, che si diceva mio fratello, mio amico… non avrebbe rotto tutti i patti e violate tutte le leggi per invadere i miei Stati in piena pace, senza motivi né dichiarazioni di guerra… Le finanze un tempo così floride sono completamente rovinate: l'Amministrazione è un caos: la sicurezza individuale non esiste… Le prigioni sono piene di sospetti… in vece di libertà lo stato di assedio regna nelle province… la legge marziale… la fucilazione istantanea per tutti quelli fra i miei sudditi che non s'inchinino alla bandiera di Sardegna… E se la Provvidenza nei suoi alti disegni permetta che cada sotto i colpi del nemico straniero… mi ritirerò con la coscienza sana… farò i più fervidi voti per la prosperità della mia patria, per le felicità di questi Popoli che formano la più grande e più diletta parte della mia famiglia.
(Francesco II delle Due Sicilie, 8 dicembre 1860)
Non sono i miei sudditi che mi hanno combattuto contro; non mi strappano il Regno le discordie intestine, ma mi vince l'ingiustificabile invasione d'un nemico straniero.
Voi sognate l'Italia e Vittorio Emanuele, ma purtroppo sarete infelici. I napoletani non hanno voluto giudicarmi a ragion veduta; io però ho la coscienza di avere fatto sempre il mio dovere, ad essi rimarranno solo gli occhi per piangere. (Francesco II delle Due Sicilie)
La ridicolizzazione attraverso cui la storiografia post-risorgimentale ha consegnato ai posteri un'immagine storpiata di quel sovrano, è nient'altro che un'ennesima manifestazione di infierimento su un vinto.(Paolo Mieli)
venerdì 20 aprile 2012
La legge ammazza-terroni
Legge Pica
All'indomani dell'annessione delle Due Sicilie al nascente regno d'Italia, all'indomani dei plebisciti-farsa organizzati per dare una parvenza di legittimità alla conquista militare, all'indomani dell'inizio della fine, i popoli duosiciliani manifestarono il proprio dissenso verso il nuovo stato unitario e, quando il ruolo di colonia, che l'Italia voleva assegnare al "meridione liberato" divenne un prezzo troppo alto da pagare, uomini e donne impavidi imbracciarono le armi per difendere la propria terra dall'invasione "straniera", dando vita a quel movimento di resistenza che i conquistatori combatterono definendolo, con l'intento di svilirlo agli occhi dell'opinione pubblica, "Brigantaggio".
Il più noto provvedimento legislativo che lo stato italiano adottò per reprimere i fenomeni di resistenza fu la legge Pica del 15 agosto 1863. Presentata come "mezzo eccezionale e temporaneo di difesa" (difesa da chi? Dai cittadini che non riconoscono la legittimità dell’invasore occupante?), la legge fu, invece, più volte prorogata ed integrata da successive modificazioni e decreti attuativi, rimanendo in vigore fino a tutto il 1865.
Paradossalmente, il proponente di questo provvedimento fu proprio un "meridionale": il deputato abruzzese Giuseppe Pica, che, così come fecero tanti altri "meridionali", si asservì all'invasore per continuare ad occupare un seggio in parlamento.
Proclamazione dello stato d'assedio
La legge Pica seguiva, di circa dodici mesi, la proclamazione, da parte del governo, dello stato d'assedio nelle province meridionali, avvenuta nell'estate del 1862. In pretica, lo stato italiano, per mantenerne il controllo, occupava militarmente i territori delle Due Sicilie, che altrimenti sarebbero sicuramente tornati ad essere uno stato indipendente.
Con lo stato d'assedio si era voluto concentrare il potere nelle mani dell'autorità militare al fine di reprimere l'attività di resistenza armata: coloro i quali venivano catturati con l'accusa di brigantaggio, fossero essi sospettati di essere ribelli o parenti di ribelli, potevano essere passati per le armi dall'esercito, senza formalità di alcun genere. Esercito e bersaglieri avevano licenza di ammazzare chiunque non gli andasse a genio! Per contro, coloro che riuscivano ad evitare il plotone di esecuzione non potevano più essere processati dai tribunali militari e divenivano soggetti alla giustizia ordinaria, che, in base alle variazioni apportate, nel 1859, al codice penale piemontese, non prevedeva più l'applicazione della pena di morte per i reati politici. La legge Pica, dunque, sospendendo, in sostanza, la garanzia dei diritti costituzionali contemplati dallo statuto Albertino, aveva l'obiettivo di colmare questo "vuoto", sottraendo i sospettati di brigantaggio ai tribunali civili in favore di quelli militari. Il parlamento italiano approvò la legge con la convinzione che attraverso di essa nessun partigiano duosiciliano sarebbe sfuggito all morte o, quanto meno, al carcere.
Le province infette
In applicazione della legge Pica, con Regio decreto del 20 agosto 1863, venivano individuate le province definite come "infestate dal brigantaggio", che erano: Abruzzo Citeriore (odierna provincia di Chieti e parte della provincia di Pescara) , Abruzzo Ulteriore II (odierna provincia dell’Aquila e parte della provincia di Rieti), Basilicata, provincia di Benevento, Calabria Citeriore (odierna provincia di Cosenza), Calabria Ulteriore II (province di Crotone, Catanzaro e Vibo), Capitanata (provincia di Foggia), Molise, Principato Citeriore (provincia di Salerno), Principato Ulteriore (provincia di Avellino) e Terra di Lavoro (odierna provincia di Caserta e area meridionale delle province di Frosinone e Latina). Non ebbero l'onore di essere incluse in questa lista: l'Abruzzo Ulteriore I (odierna provincia di Teramo e parte della provincia di Pescara), la provincia di Napoli (dove il controllo sulla popolazione era assicurato dalla nascente camorra foraggiata dallo stato), Calabria Ulteriore I (odierna provincia di Reggio - anche qui valeva un discorso simile a quello fatto per Napoli) e, solo inizialmente, le sette province siciliane (poichè non interessate dalle insorgenze di carattere legittimista, ma che ben presto verranno ugualmente interessate dal provvedimento).
Per legge, dunque, il nuovo stato fu scpaccato in due: il centro-nord, dove vigeva lo Statuto albertino, e le Due Sicilie, dove i diritti costituzionali dei cittadini erano "momentaneamente sospesi". La legge fu, infatti, adottata in deroga agli articoli 24 e 71 dello Statuto: tali articoli garantivano, rispettivamente, il principio di uguaglianza di tutti i sudditi dinanzi alla legge e la garanzia del giudice naturale connessa al divieto di costituire tribunali speciali.
Sottomissione e sterminio
Con la legge Pica, venivano istituiti sul territorio i tribunali militari, ai quali passava la competenza in materia di reati di brigantaggio. Il nuovo corpo normativo stabiliva che poteva essere qualificato come brigante (e, dunque, giudicato dalla corte marziale) chiunque fosse stato trovato armato in un gruppo di almeno tre persone. Veniva concessa la facoltà di istituire delle milizie volontarie per la caccia ai briganti ed erano stabiliti dei premi in danaro per ogni brigante arrestato o ucciso. Ne conseguì che pastori e contadini, che spesso si muovevano portando indosso strumenti di difesa come pugnali o coltelli a serramanico, divennero d'un sol colpo criminali passibili delle severe condanne previste dal complesso normativo connesso alla legge Pica.
Le pene comminate ai condannati andavano dall'incarcerazione, ai lavori forzati, alla fucilazione. Veniva punito con la fucilazione chiunque avesse opposto resistenza armata all'arresto, mentre coloro che non si opponevano all'arresto potevano essere puniti con i lavori forzati a vita o con i lavori forzati a tempo, salvo, però, maggiori pene, applicabili nel caso in cui costoro fossero stati riconosciuti colpevoli di altri reati. Coloro che prestavano aiuti e sostegno di qualsiasi genere ai briganti potevano essere, invece, puniti con i lavori forzati a tempo o con l'incarcerazione. Veniva punito con la deportazione chiunque si fosse unito, anche momentaneamente, ai gruppi qualificati come bande brigantesche. Erano, invece, previste delle attenuanti per coloro i quali si fossero presentati spontaneamente alle autorità. Veniva, infine, introdotto anche il reato di eccitamento al brigantaggio.
Nelle province che lo stato definì "infette", venivano istituiti i Consigli inquisitori (i cui componenti erano il Prefetto, il Presidente del Tribunale, il Procuratore del Re e due cittadini della Deputazione Provinciale) che avevano il compito di stendere delle liste con i nominativi dei briganti individuando così i sospetti che potevano essere messi in stato d'arresto o, in caso di resistenza, uccisi: l'iscrizione nella lista, infatti, costituiva di per sé prova d'accusa. In sostanza, veniva introdotto il criterio del sospetto: in base al quale divenne possibile per i "liberali" avanzare accuse senza fondamento, per consumare vendette private, per liberarsi degli oppositori politici, per accrescere i prorpi profitti... per ammazzare il "terrone scomodo"!
La legge, per di più, aveva effetto retroattivo: in altre parole, era possibile applicare la legge Pica anche per reati contestati in epoca antecedente la promulgazione della legge stessa.
La Sicilia
Attraverso le successive modificazioni, la legge Pica fu estesa anche alla Sicilia, pur essendo assente sull'isola il grande brigantaggio legittimista che caratterizzava le province napoletane. In particolare, l'obiettivo del governo era combattere il fenomeno della renitenza alla leva militare: divennero, infatti, perseguibili i renitenti, i loro parenti e, persino, i loro concittadini (attraverso l'occupazione militare di città e paesi). Alla sospensione dei diritti costituzionali, dunque, si accompagnavano misure come la punizione collettiva per i reati dei singoli e il diritto di rappresaglia contro i villaggi: veniva introdotto il concetto di "responsabilità collettiva" (sic)! Venivano adoperati metodi da colonialismo!
Chi si oppose fu ignorato
Già durante la fase di discussione, fu subito chiaro che la nuova legge avrebbe dato adito ad errori ed arbitri di ogni sorta: il senatore Ubaldino Peruzzi, infatti, notò come il provvedimento fosse «la negazione di ogni libertà politica». Al pugno di ferro prospettato dalla Destra storica, il Senatore Luigi Federico Menabrea rispose, invece, con una proposta totalmente alternativa. Il Menabrea, come soluzione al malcontento popolare e alle insurrezioni che seguirono l'annessione delle Due Sicilie al Regno d'Italia, propose di stanziare 20 milioni di lire per la realizzazione di opere pubbliche al Sud. Il piano del Menabrea, però, non ebbe alcun seguito, poiché il parlamento italiano preferì il pugno di ferro, preferì investire nell'impiego delle forze armate, preferì sterminare chi ad esso si opponeva.
Nonostante la scelleratezza del provvedimento legislativo fosse stata apertamente denunciata, la legge fu ugualmente approvata, e immediatamente dagli stessi contemporanei furono riconosciuti gli abusi e le iniquità a cui essa diede adito. Nella seduta parlamentare del 29 aprile 1862, il senatore Giuseppe Ferrari affermava: «Non potete negare che intere famiglie vengono arrestate senza il minimo pretesto; che vi sono, in quelle province, degli uomini assolti dai giudici e che sono ancora in carcere. Si è introdotta una nuova legge in base alla quale ogni uomo preso con le armi in pugno viene fucilato. Questa si chiama guerra barbarica, guerra senza quartiere. Se la vostra coscienza non vi dice che state sguazzando nel sangue, non so più come esprimermi».
Allo stesso modo, nel 1864, Vincenzo Padula scriveva: «Il tempo che si dà la caccia ai briganti è una vera pasqua per gli ufficiali, civili e militari; e l'immoralità dei mezzi, [...], ha corrotto e imbruttito. Si arrestano le famiglie dei briganti, ed i più lontani congiunti; e le madri, le spose, le sorelle e le figlie loro, servono a saziare la libidine, ora di chi comanda, ora di chi esegue quegli arresti».
Esiti
La legge Pica non faceva alcuna distinzione tra comuni delinquenti, partigiani, contadini, collaborazionisti veri o presunti. Essa, fra fucilazioni, morti in combattimento ed arresti, eliminò da paesi e campagne circa 14.000 briganti o presunti briganti: per effetto della legge e del complesso normativo ad essa connesso, fino a tutto il dicembre 1865, si ebbero 12.000 tra arrestati e deportati, mentre furono 2.218 i condannati. Nel solo 1865, furono 55 le condanne a morte, 83 ai lavori forzati a vita, 576 quelle ai lavori forzati a tempo e 306 quelle alla reclusione ordinaria. Questi dati, desunti dai pochi documenti ufficiali sfuggiti agli archivi militari, lasciano presupporre una sottostima del reale numero delle vittime. In generale, la guerra civile eufemisticamente definita "lotta al Brigantaggio", impegnò un significativo "contingente di pacificazione": inizialmente esso constava di centoventimila unità, quasi la metà dell'allora esercito unitario, poi scese, negli anni successivi, prima, a novantamila uomini e, poi, a cinquantamila.
Nel 1865, la legge Pica fu abrogata: nonostante il suo rigore, le iniquità e le violenze, essa non riuscì a portare i risultati che il governo si era prefissi, non riuscì ad annichilire le insorgenze indipendentiste: i briganti, infatti, non furono piegati e le loro attività insurrezionali perdurarono negli anni successivi al 1865, protraendosi fino al 1870.
AnTuDo
ANimus TUus DOminus
Il coraggio è il tuo signore
All'indomani dell'annessione delle Due Sicilie al nascente regno d'Italia, all'indomani dei plebisciti-farsa organizzati per dare una parvenza di legittimità alla conquista militare, all'indomani dell'inizio della fine, i popoli duosiciliani manifestarono il proprio dissenso verso il nuovo stato unitario e, quando il ruolo di colonia, che l'Italia voleva assegnare al "meridione liberato" divenne un prezzo troppo alto da pagare, uomini e donne impavidi imbracciarono le armi per difendere la propria terra dall'invasione "straniera", dando vita a quel movimento di resistenza che i conquistatori combatterono definendolo, con l'intento di svilirlo agli occhi dell'opinione pubblica, "Brigantaggio".
Il più noto provvedimento legislativo che lo stato italiano adottò per reprimere i fenomeni di resistenza fu la legge Pica del 15 agosto 1863. Presentata come "mezzo eccezionale e temporaneo di difesa" (difesa da chi? Dai cittadini che non riconoscono la legittimità dell’invasore occupante?), la legge fu, invece, più volte prorogata ed integrata da successive modificazioni e decreti attuativi, rimanendo in vigore fino a tutto il 1865.
Paradossalmente, il proponente di questo provvedimento fu proprio un "meridionale": il deputato abruzzese Giuseppe Pica, che, così come fecero tanti altri "meridionali", si asservì all'invasore per continuare ad occupare un seggio in parlamento.
Proclamazione dello stato d'assedio
La legge Pica seguiva, di circa dodici mesi, la proclamazione, da parte del governo, dello stato d'assedio nelle province meridionali, avvenuta nell'estate del 1862. In pretica, lo stato italiano, per mantenerne il controllo, occupava militarmente i territori delle Due Sicilie, che altrimenti sarebbero sicuramente tornati ad essere uno stato indipendente.
Con lo stato d'assedio si era voluto concentrare il potere nelle mani dell'autorità militare al fine di reprimere l'attività di resistenza armata: coloro i quali venivano catturati con l'accusa di brigantaggio, fossero essi sospettati di essere ribelli o parenti di ribelli, potevano essere passati per le armi dall'esercito, senza formalità di alcun genere. Esercito e bersaglieri avevano licenza di ammazzare chiunque non gli andasse a genio! Per contro, coloro che riuscivano ad evitare il plotone di esecuzione non potevano più essere processati dai tribunali militari e divenivano soggetti alla giustizia ordinaria, che, in base alle variazioni apportate, nel 1859, al codice penale piemontese, non prevedeva più l'applicazione della pena di morte per i reati politici. La legge Pica, dunque, sospendendo, in sostanza, la garanzia dei diritti costituzionali contemplati dallo statuto Albertino, aveva l'obiettivo di colmare questo "vuoto", sottraendo i sospettati di brigantaggio ai tribunali civili in favore di quelli militari. Il parlamento italiano approvò la legge con la convinzione che attraverso di essa nessun partigiano duosiciliano sarebbe sfuggito all morte o, quanto meno, al carcere.
Le province infette
In applicazione della legge Pica, con Regio decreto del 20 agosto 1863, venivano individuate le province definite come "infestate dal brigantaggio", che erano: Abruzzo Citeriore (odierna provincia di Chieti e parte della provincia di Pescara) , Abruzzo Ulteriore II (odierna provincia dell’Aquila e parte della provincia di Rieti), Basilicata, provincia di Benevento, Calabria Citeriore (odierna provincia di Cosenza), Calabria Ulteriore II (province di Crotone, Catanzaro e Vibo), Capitanata (provincia di Foggia), Molise, Principato Citeriore (provincia di Salerno), Principato Ulteriore (provincia di Avellino) e Terra di Lavoro (odierna provincia di Caserta e area meridionale delle province di Frosinone e Latina). Non ebbero l'onore di essere incluse in questa lista: l'Abruzzo Ulteriore I (odierna provincia di Teramo e parte della provincia di Pescara), la provincia di Napoli (dove il controllo sulla popolazione era assicurato dalla nascente camorra foraggiata dallo stato), Calabria Ulteriore I (odierna provincia di Reggio - anche qui valeva un discorso simile a quello fatto per Napoli) e, solo inizialmente, le sette province siciliane (poichè non interessate dalle insorgenze di carattere legittimista, ma che ben presto verranno ugualmente interessate dal provvedimento).
Per legge, dunque, il nuovo stato fu scpaccato in due: il centro-nord, dove vigeva lo Statuto albertino, e le Due Sicilie, dove i diritti costituzionali dei cittadini erano "momentaneamente sospesi". La legge fu, infatti, adottata in deroga agli articoli 24 e 71 dello Statuto: tali articoli garantivano, rispettivamente, il principio di uguaglianza di tutti i sudditi dinanzi alla legge e la garanzia del giudice naturale connessa al divieto di costituire tribunali speciali.
Sottomissione e sterminio
Con la legge Pica, venivano istituiti sul territorio i tribunali militari, ai quali passava la competenza in materia di reati di brigantaggio. Il nuovo corpo normativo stabiliva che poteva essere qualificato come brigante (e, dunque, giudicato dalla corte marziale) chiunque fosse stato trovato armato in un gruppo di almeno tre persone. Veniva concessa la facoltà di istituire delle milizie volontarie per la caccia ai briganti ed erano stabiliti dei premi in danaro per ogni brigante arrestato o ucciso. Ne conseguì che pastori e contadini, che spesso si muovevano portando indosso strumenti di difesa come pugnali o coltelli a serramanico, divennero d'un sol colpo criminali passibili delle severe condanne previste dal complesso normativo connesso alla legge Pica.
Le pene comminate ai condannati andavano dall'incarcerazione, ai lavori forzati, alla fucilazione. Veniva punito con la fucilazione chiunque avesse opposto resistenza armata all'arresto, mentre coloro che non si opponevano all'arresto potevano essere puniti con i lavori forzati a vita o con i lavori forzati a tempo, salvo, però, maggiori pene, applicabili nel caso in cui costoro fossero stati riconosciuti colpevoli di altri reati. Coloro che prestavano aiuti e sostegno di qualsiasi genere ai briganti potevano essere, invece, puniti con i lavori forzati a tempo o con l'incarcerazione. Veniva punito con la deportazione chiunque si fosse unito, anche momentaneamente, ai gruppi qualificati come bande brigantesche. Erano, invece, previste delle attenuanti per coloro i quali si fossero presentati spontaneamente alle autorità. Veniva, infine, introdotto anche il reato di eccitamento al brigantaggio.
Nelle province che lo stato definì "infette", venivano istituiti i Consigli inquisitori (i cui componenti erano il Prefetto, il Presidente del Tribunale, il Procuratore del Re e due cittadini della Deputazione Provinciale) che avevano il compito di stendere delle liste con i nominativi dei briganti individuando così i sospetti che potevano essere messi in stato d'arresto o, in caso di resistenza, uccisi: l'iscrizione nella lista, infatti, costituiva di per sé prova d'accusa. In sostanza, veniva introdotto il criterio del sospetto: in base al quale divenne possibile per i "liberali" avanzare accuse senza fondamento, per consumare vendette private, per liberarsi degli oppositori politici, per accrescere i prorpi profitti... per ammazzare il "terrone scomodo"!
La legge, per di più, aveva effetto retroattivo: in altre parole, era possibile applicare la legge Pica anche per reati contestati in epoca antecedente la promulgazione della legge stessa.
La Sicilia
Attraverso le successive modificazioni, la legge Pica fu estesa anche alla Sicilia, pur essendo assente sull'isola il grande brigantaggio legittimista che caratterizzava le province napoletane. In particolare, l'obiettivo del governo era combattere il fenomeno della renitenza alla leva militare: divennero, infatti, perseguibili i renitenti, i loro parenti e, persino, i loro concittadini (attraverso l'occupazione militare di città e paesi). Alla sospensione dei diritti costituzionali, dunque, si accompagnavano misure come la punizione collettiva per i reati dei singoli e il diritto di rappresaglia contro i villaggi: veniva introdotto il concetto di "responsabilità collettiva" (sic)! Venivano adoperati metodi da colonialismo!
Chi si oppose fu ignorato
Già durante la fase di discussione, fu subito chiaro che la nuova legge avrebbe dato adito ad errori ed arbitri di ogni sorta: il senatore Ubaldino Peruzzi, infatti, notò come il provvedimento fosse «la negazione di ogni libertà politica». Al pugno di ferro prospettato dalla Destra storica, il Senatore Luigi Federico Menabrea rispose, invece, con una proposta totalmente alternativa. Il Menabrea, come soluzione al malcontento popolare e alle insurrezioni che seguirono l'annessione delle Due Sicilie al Regno d'Italia, propose di stanziare 20 milioni di lire per la realizzazione di opere pubbliche al Sud. Il piano del Menabrea, però, non ebbe alcun seguito, poiché il parlamento italiano preferì il pugno di ferro, preferì investire nell'impiego delle forze armate, preferì sterminare chi ad esso si opponeva.
Nonostante la scelleratezza del provvedimento legislativo fosse stata apertamente denunciata, la legge fu ugualmente approvata, e immediatamente dagli stessi contemporanei furono riconosciuti gli abusi e le iniquità a cui essa diede adito. Nella seduta parlamentare del 29 aprile 1862, il senatore Giuseppe Ferrari affermava: «Non potete negare che intere famiglie vengono arrestate senza il minimo pretesto; che vi sono, in quelle province, degli uomini assolti dai giudici e che sono ancora in carcere. Si è introdotta una nuova legge in base alla quale ogni uomo preso con le armi in pugno viene fucilato. Questa si chiama guerra barbarica, guerra senza quartiere. Se la vostra coscienza non vi dice che state sguazzando nel sangue, non so più come esprimermi».
Allo stesso modo, nel 1864, Vincenzo Padula scriveva: «Il tempo che si dà la caccia ai briganti è una vera pasqua per gli ufficiali, civili e militari; e l'immoralità dei mezzi, [...], ha corrotto e imbruttito. Si arrestano le famiglie dei briganti, ed i più lontani congiunti; e le madri, le spose, le sorelle e le figlie loro, servono a saziare la libidine, ora di chi comanda, ora di chi esegue quegli arresti».
Esiti
La legge Pica non faceva alcuna distinzione tra comuni delinquenti, partigiani, contadini, collaborazionisti veri o presunti. Essa, fra fucilazioni, morti in combattimento ed arresti, eliminò da paesi e campagne circa 14.000 briganti o presunti briganti: per effetto della legge e del complesso normativo ad essa connesso, fino a tutto il dicembre 1865, si ebbero 12.000 tra arrestati e deportati, mentre furono 2.218 i condannati. Nel solo 1865, furono 55 le condanne a morte, 83 ai lavori forzati a vita, 576 quelle ai lavori forzati a tempo e 306 quelle alla reclusione ordinaria. Questi dati, desunti dai pochi documenti ufficiali sfuggiti agli archivi militari, lasciano presupporre una sottostima del reale numero delle vittime. In generale, la guerra civile eufemisticamente definita "lotta al Brigantaggio", impegnò un significativo "contingente di pacificazione": inizialmente esso constava di centoventimila unità, quasi la metà dell'allora esercito unitario, poi scese, negli anni successivi, prima, a novantamila uomini e, poi, a cinquantamila.
Nel 1865, la legge Pica fu abrogata: nonostante il suo rigore, le iniquità e le violenze, essa non riuscì a portare i risultati che il governo si era prefissi, non riuscì ad annichilire le insorgenze indipendentiste: i briganti, infatti, non furono piegati e le loro attività insurrezionali perdurarono negli anni successivi al 1865, protraendosi fino al 1870.
AnTuDo
ANimus TUus DOminus
Il coraggio è il tuo signore
Il brigantaggio
Il brigantaggio nell'Italia meridionale dopo l'Unità d'Italia non è da considerare una semplice sollevazione contadina contro il potere politico e economico rappresentato dal padrone, ma è una realtà ben più complessa.
L'origine del fenomeno è da attribuirsi alla miseria e alle continue angherie che il povero popolo dei contadini doveva continuamente sopportare da parte dei soliti, pochi, ricchi padroni.
Non è facile comprendere il perché di un fenomeno tanto complesso. Storici e studiosi si sono, da sempre, cimentati nella comprensione del fenomeno, concordando sulla complessità e sulla varietà delle motivazioni.
Probabilmente un buon margine di colpa è da attribuire all'illusione che, con l'Unità d'Italia, molte cose sarebbero cambiate. Al contrario, la vita dei contadini andò sempre più peggiorando, soprattutto a causa della miope e cattiva politica sabauda che tratto il meridione al pari di una colonia, conquistata con mire espansionistiche. I piemontesi, purtroppo, non fecero altro che sostituire i Borboni nell'amministrazione del potere; in una situazione simile scontento e delusione fomentarono la ribellione che, senza molti scrupoli, fu trattata dai nuovi governanti con l'applicazione delle legge marziale.
Le rivolte finivano, spesso, nel sangue; i briganti o, anche, coloro che, sommariamente, venivano riconosciuti tali, venivano passati per le armi.
Fu, questo, il triste risultato di una cattiva valutazione di un fenomeno, difficile da comprendere per il nuovo potere politico che, beatamente, viveva nell'Italia settentrionale, lontano dalla nuova realtà che una guerra di conquista aveva portato in dote. Pertanto le continue richieste di pane e lavoro dei contadini meridionali si persero nella lentezza e nella negligenza dei rappresentanti politici.
Le fasi del brigantaggio
I primi vagiti del Brigantaggio cominciarono a farsi sentire sin dal 1861, quando gruppi formati da contadini, salariati ridotti alla fame, disertori ed evasi dalle carceri, si davano al brigantaggio nelle sue forme primitive fatte di furti, vendette e vandalismi; in questo periodo cominciano anche a nascere le prime bande con un capo che, di solito, si eleggeva in base alla sua abilità, alla sua autorevolezza ed alla sua capacità di essere spietato.
A combattere il brigantaggio fu principalmente l'esercito anche se, spesso, non era in grado di fronteggiare le mobilissime bande, che lo impegnavano in vere e proprie azioni di guerriglia.
Nel corso del 1864 l'esercito fu potenziato ed alcune grosse bande furono sconfitte. In seguito, e fino al 1870, vi furono ancora azioni brigantesche di particolare vivacità ma le difficoltà, per le bande, cominciavano a farsi sentire.
L'esercito divenne sempre più spietato, al pari degli stessi briganti. I piemontesi dedicarono molte risorse per sconfiggere il fenomeno. All'inizio del 1870 la violenta repressione cui tutto il meridione fu sottoposto, concluse il periodo del brigantaggio per il meridione d'Italia. Una vera e propria guerra civile era terminata ma rimanevano, comunque, irrisolti i grandi problemi del meridione d'Italia che hanno provocato la sua arretratezza nei confronti del resto dell'Italia.
Carmine Crocco
Monticchio il luoghi in cui si nascondeva il brigante Crocco
Carmine Crocco fu il più famoso brigante della storia. Nasce a Rionero in Vulture (Potenza) il 5 giugno del 1830. Ad appena 19 anni si arruola nell'esercito ma diserta nel 1852 dopo essere stato condannato per omicidio.
Costituisce insieme ad altri disertori e contadini una banda di Briganti nascondendosi nei boschi di Monticchio, ma fu catturato e condannato al carcere per 19 anni.
Per scontare la pena fu rinchiuso nel Carcere di Brindisi dove evase insieme ad altri carcerati nella notte del 13 dicembre del 1859
Tra il 1860 e il 1865 si alleò con le bande borboniche contro le truppe regolari italiane, si rifugiò nello Stato Pontificio ma fu catturato e condannato a morte.
Nel 1874 la condanna inflitta precedentemente fu trasformata in un condanna ai lavori forzati a vita. Morì in carcere nel 1905.
PUBBLICATO IL 30/03/2004 DA http://www.japigia.com/docs/index.shtml?A=brigantaggio
L'origine del fenomeno è da attribuirsi alla miseria e alle continue angherie che il povero popolo dei contadini doveva continuamente sopportare da parte dei soliti, pochi, ricchi padroni.
Non è facile comprendere il perché di un fenomeno tanto complesso. Storici e studiosi si sono, da sempre, cimentati nella comprensione del fenomeno, concordando sulla complessità e sulla varietà delle motivazioni.
Probabilmente un buon margine di colpa è da attribuire all'illusione che, con l'Unità d'Italia, molte cose sarebbero cambiate. Al contrario, la vita dei contadini andò sempre più peggiorando, soprattutto a causa della miope e cattiva politica sabauda che tratto il meridione al pari di una colonia, conquistata con mire espansionistiche. I piemontesi, purtroppo, non fecero altro che sostituire i Borboni nell'amministrazione del potere; in una situazione simile scontento e delusione fomentarono la ribellione che, senza molti scrupoli, fu trattata dai nuovi governanti con l'applicazione delle legge marziale.
Le rivolte finivano, spesso, nel sangue; i briganti o, anche, coloro che, sommariamente, venivano riconosciuti tali, venivano passati per le armi.
Fu, questo, il triste risultato di una cattiva valutazione di un fenomeno, difficile da comprendere per il nuovo potere politico che, beatamente, viveva nell'Italia settentrionale, lontano dalla nuova realtà che una guerra di conquista aveva portato in dote. Pertanto le continue richieste di pane e lavoro dei contadini meridionali si persero nella lentezza e nella negligenza dei rappresentanti politici.
Le fasi del brigantaggio
I primi vagiti del Brigantaggio cominciarono a farsi sentire sin dal 1861, quando gruppi formati da contadini, salariati ridotti alla fame, disertori ed evasi dalle carceri, si davano al brigantaggio nelle sue forme primitive fatte di furti, vendette e vandalismi; in questo periodo cominciano anche a nascere le prime bande con un capo che, di solito, si eleggeva in base alla sua abilità, alla sua autorevolezza ed alla sua capacità di essere spietato.
A combattere il brigantaggio fu principalmente l'esercito anche se, spesso, non era in grado di fronteggiare le mobilissime bande, che lo impegnavano in vere e proprie azioni di guerriglia.
Nel corso del 1864 l'esercito fu potenziato ed alcune grosse bande furono sconfitte. In seguito, e fino al 1870, vi furono ancora azioni brigantesche di particolare vivacità ma le difficoltà, per le bande, cominciavano a farsi sentire.
L'esercito divenne sempre più spietato, al pari degli stessi briganti. I piemontesi dedicarono molte risorse per sconfiggere il fenomeno. All'inizio del 1870 la violenta repressione cui tutto il meridione fu sottoposto, concluse il periodo del brigantaggio per il meridione d'Italia. Una vera e propria guerra civile era terminata ma rimanevano, comunque, irrisolti i grandi problemi del meridione d'Italia che hanno provocato la sua arretratezza nei confronti del resto dell'Italia.
Carmine Crocco
Monticchio il luoghi in cui si nascondeva il brigante Crocco
Carmine Crocco fu il più famoso brigante della storia. Nasce a Rionero in Vulture (Potenza) il 5 giugno del 1830. Ad appena 19 anni si arruola nell'esercito ma diserta nel 1852 dopo essere stato condannato per omicidio.
Costituisce insieme ad altri disertori e contadini una banda di Briganti nascondendosi nei boschi di Monticchio, ma fu catturato e condannato al carcere per 19 anni.
Per scontare la pena fu rinchiuso nel Carcere di Brindisi dove evase insieme ad altri carcerati nella notte del 13 dicembre del 1859
Tra il 1860 e il 1865 si alleò con le bande borboniche contro le truppe regolari italiane, si rifugiò nello Stato Pontificio ma fu catturato e condannato a morte.
Nel 1874 la condanna inflitta precedentemente fu trasformata in un condanna ai lavori forzati a vita. Morì in carcere nel 1905.
PUBBLICATO IL 30/03/2004 DA http://www.japigia.com/docs/index.shtml?A=brigantaggio
mercoledì 18 aprile 2012
NON LASCERANNO AI MERIDIONALI NEMMENO GLI OCCHI PER PIANGERE
I Borbone avevano conservato il loro regno integro; i piemontesi, che avevano invaso un Regno senza dichiarazione di guerra, trovarono oro e denaro, saccheggiarono tutto quello che c’era da saccheggiare, massacrarono intere popolazioni, misero a ferro e fuoco il Sud per dieci anni, lo impoverirono, trasferendo tutte le sue ricchezze nel Piemonte.
Francesco II, partendo da Gaeta il 14 febbraio 1861, disse al comandante Vincenzo Criscuolo: «Vincenzino, i napoletani non hanno voluto giudicarmi a ragion veduta; io però ho la coscienza di avere fatto sempre il mio dovere, Il Nord non lascerà ai meridionali neppure gli occhi per piangere”.
Mai parole furono così vere!
Dal 1860 al 1870 i piemontesi riuscirono a depredare tutto quello che c’era da prendere, svuotarono le casse dei comuni, quelle delle banche, quelle dei poveri contadini, quelle delle comunità religiose, dei conventi; saccheggiarono le chiese e le campagne; smontarono i macchinari delle fabbriche per montarli al nord; rubarono opere d’arte, quadri, statue.
Le miniere di ferro, il laboratorio metallurgico della Mongiana in Calabria; le industrie tessili della Ciociaria; le manifatture di Terra di Lavoro; i tanti cantieri navali sparsi per tutto il Mezzogiorno; la magnifica fabbrica di Pietrarsa che dava con l’indotto lavoro a settemila persone; le scuole pubbliche e, soprattutto, la dignità e la libertà furono tolte ai Meridionali i quali, coraggiosamente, preferirono andare a morire partigiani sui monti dell’ Appennino, piuttosto che veder calpestato il suolo della patria napoletana dalle “orde di assassjnj e ladroni del nord”.
Erano così rapaci i fautori dell’Italia Unita che a Napoli furono trafugate anche le batterie della cucina dei palazzi reali. Presero la via di Torino anche due enormi mortai di bronzo cesellati, che stavano negli ospedali militari della Trinità e del Santo Sacramento, tali opere erano state create da Benvenuto Cellini.
Tutto il Sud fu razziato e spogliato delle sue fabbriche e delle sue ricchezze: a guerra civile terminata, nel 1871, le più oneste e migliori menti della classe imprenditoriale, quel poco che restava di media borghesia oltre a una miriade di contadini e di operai del Sud, che fino al 1860 non avevano mai conosciuto l’emigrazione, furono costretti ad arricchire gli stati del continente americano.
Fino al 1860, il Regno delle Due Sicilie, ricco di pace, di memorie, di costumi, di commercio, di prosperità, di arti, di industrie, di pesca, di agricoltura, di artigianato, era l’invidia delle genti: scuole gratis, teatri, opere d’ingegneria, meravigliosi musei, strade ferrate, gas, opifici, opere di carità, bacini, cantieri navali, arsenali davano lavoro a tutto il popolo.
Non c’era disoccupazione, era il primo stato Sociale, il primo stato Illuminato del mondo.
Dal 1860 al 1871 il Meridione divenne un inferno.
Secondo i dati del primo censimentonto dell’Italia unita (1861) risulta che su 668 milioni di lire incamerati nelle casse piemontesi, ben 443 appartenevano al Regno delle Due Sicilie
NORD LADRO
Quando si parla d’industria, l’immaginario collettivo pensa al Nord, pensa al triangolo industriale Milano, Genova, Torino, come se il Padreterno avesse eletto i padani a condurre l’economia, come se i meridionali fossero incapaci di produrre beni, ma solo in grado di consumare ricchezza.
Leggendo le statistiche del primo censimento dell’unità d’Italia, ci accorgiamo che gli addetti nell’industria.
Questi sono dati forniti dal governo piemontese nel 1861 e quindi inconfutabili. 1.595.359 addetti nell’industria del Regno Borbonico contro 1.170.859 addetti del resto d’Italia.
La Campania nel 1860 era tra le regione più industrializzata del mondo ed oggi, dopo 150 anni di potere liberal massonico, è definita terra di camorra.
Oggi è sotto gli occhi di tutti la voragine debitoria di questo Stato!
Nel 1860 scannarono il Sud e il Sud ha pagato un prezzo enorme alla causa unitaria: quasi un milione di morti, tra fucilati, incarcerati, impazziti, un decimo della popolazione, 20 milioni di emigranti; la spoliazione delle terre demaniali e dei beni ecclesiastici, tutti i risparmi dei Meridionali rapinati.
I pennivendoli di regime continuano a scrivere libri di storia menzogneri sull’Unità d’Italia, danno al Sud colpe tremende di parassitismo; continuano a chiamare “borbonica” la cattiva amministrazione e la burocrazia di stampo piemontese e, soprattutto, sono riusciti ad inculcare nell’immaginario collettivo, senza spiegarne le cause, bombardando continuamente le menti ormai fiaccate della gente, che Sud vuol dire mafia, vuol dire camorra, vuol dire ‘ndrangheta, vuol dire far niente, vuol dire assistito.
Ecco, questi pennivendoli sperano di mettere un velo sull’intelligenza umana, di far dimenticare a qualcuno le miserie del Nord, gli eccidi perpetrati dagli invasori piemontesi, le prepotenze dei liberalmassoni di ieri e di oggi e soprattutto vorrebbero farci dimenticare che il Sud era ricco.
tratto dal sito:
http://www.veja.it/?/archives/2006/11/22_html&paged=38
autore Antonio Ciano
Francesco II, partendo da Gaeta il 14 febbraio 1861, disse al comandante Vincenzo Criscuolo: «Vincenzino, i napoletani non hanno voluto giudicarmi a ragion veduta; io però ho la coscienza di avere fatto sempre il mio dovere, Il Nord non lascerà ai meridionali neppure gli occhi per piangere”.
Mai parole furono così vere!
Dal 1860 al 1870 i piemontesi riuscirono a depredare tutto quello che c’era da prendere, svuotarono le casse dei comuni, quelle delle banche, quelle dei poveri contadini, quelle delle comunità religiose, dei conventi; saccheggiarono le chiese e le campagne; smontarono i macchinari delle fabbriche per montarli al nord; rubarono opere d’arte, quadri, statue.
Le miniere di ferro, il laboratorio metallurgico della Mongiana in Calabria; le industrie tessili della Ciociaria; le manifatture di Terra di Lavoro; i tanti cantieri navali sparsi per tutto il Mezzogiorno; la magnifica fabbrica di Pietrarsa che dava con l’indotto lavoro a settemila persone; le scuole pubbliche e, soprattutto, la dignità e la libertà furono tolte ai Meridionali i quali, coraggiosamente, preferirono andare a morire partigiani sui monti dell’ Appennino, piuttosto che veder calpestato il suolo della patria napoletana dalle “orde di assassjnj e ladroni del nord”.
Erano così rapaci i fautori dell’Italia Unita che a Napoli furono trafugate anche le batterie della cucina dei palazzi reali. Presero la via di Torino anche due enormi mortai di bronzo cesellati, che stavano negli ospedali militari della Trinità e del Santo Sacramento, tali opere erano state create da Benvenuto Cellini.
Tutto il Sud fu razziato e spogliato delle sue fabbriche e delle sue ricchezze: a guerra civile terminata, nel 1871, le più oneste e migliori menti della classe imprenditoriale, quel poco che restava di media borghesia oltre a una miriade di contadini e di operai del Sud, che fino al 1860 non avevano mai conosciuto l’emigrazione, furono costretti ad arricchire gli stati del continente americano.
Fino al 1860, il Regno delle Due Sicilie, ricco di pace, di memorie, di costumi, di commercio, di prosperità, di arti, di industrie, di pesca, di agricoltura, di artigianato, era l’invidia delle genti: scuole gratis, teatri, opere d’ingegneria, meravigliosi musei, strade ferrate, gas, opifici, opere di carità, bacini, cantieri navali, arsenali davano lavoro a tutto il popolo.
Non c’era disoccupazione, era il primo stato Sociale, il primo stato Illuminato del mondo.
Dal 1860 al 1871 il Meridione divenne un inferno.
Secondo i dati del primo censimentonto dell’Italia unita (1861) risulta che su 668 milioni di lire incamerati nelle casse piemontesi, ben 443 appartenevano al Regno delle Due Sicilie
NORD LADRO
Quando si parla d’industria, l’immaginario collettivo pensa al Nord, pensa al triangolo industriale Milano, Genova, Torino, come se il Padreterno avesse eletto i padani a condurre l’economia, come se i meridionali fossero incapaci di produrre beni, ma solo in grado di consumare ricchezza.
Leggendo le statistiche del primo censimento dell’unità d’Italia, ci accorgiamo che gli addetti nell’industria.
Questi sono dati forniti dal governo piemontese nel 1861 e quindi inconfutabili. 1.595.359 addetti nell’industria del Regno Borbonico contro 1.170.859 addetti del resto d’Italia.
La Campania nel 1860 era tra le regione più industrializzata del mondo ed oggi, dopo 150 anni di potere liberal massonico, è definita terra di camorra.
Oggi è sotto gli occhi di tutti la voragine debitoria di questo Stato!
Nel 1860 scannarono il Sud e il Sud ha pagato un prezzo enorme alla causa unitaria: quasi un milione di morti, tra fucilati, incarcerati, impazziti, un decimo della popolazione, 20 milioni di emigranti; la spoliazione delle terre demaniali e dei beni ecclesiastici, tutti i risparmi dei Meridionali rapinati.
I pennivendoli di regime continuano a scrivere libri di storia menzogneri sull’Unità d’Italia, danno al Sud colpe tremende di parassitismo; continuano a chiamare “borbonica” la cattiva amministrazione e la burocrazia di stampo piemontese e, soprattutto, sono riusciti ad inculcare nell’immaginario collettivo, senza spiegarne le cause, bombardando continuamente le menti ormai fiaccate della gente, che Sud vuol dire mafia, vuol dire camorra, vuol dire ‘ndrangheta, vuol dire far niente, vuol dire assistito.
Ecco, questi pennivendoli sperano di mettere un velo sull’intelligenza umana, di far dimenticare a qualcuno le miserie del Nord, gli eccidi perpetrati dagli invasori piemontesi, le prepotenze dei liberalmassoni di ieri e di oggi e soprattutto vorrebbero farci dimenticare che il Sud era ricco.
tratto dal sito:
http://www.veja.it/?/archives/2006/11/22_html&paged=38
autore Antonio Ciano
martedì 17 aprile 2012
I NOSTRI BISNONNI BRIGANTI
A loro un po' di dignita'.
(di Palatucci Carmine da un articolo del periodico "ALTIRPINIA" del 15 aprile 2000)
Correva l' anno 1861 ! Il piemonte indebitato con Francia e Inghilterra (alla Francia cedette Nizza) decise ,sotto la spinta e l'appoggio incondizionato di questi due Stati, di infamare per poi depredare la nostra Terra: il REGNO DELLE DUE SICILIE. Gia' da molto tempo , attraverso i mass-media di allora , era partita una campagna diffamatoria contro i Borboni. Essa consisteva nell' accusare i nostri regnanti di essere retrogradi e soprattutto di condannare la parola di Giuseppe Mazzini che inneggiava all' Italia unita. E dire che anche Mazzini ebbe delle perplessita' sui metodi intrapresi dai savoiardi per raggiungere l' unita' a causa dei soprusi dell' esercito piemontese. Massacri, torture, condanne senza processo,bambini trucidati,donne violentate finanche con le baionette. Ed infine un plebiscito pilotato a suon di legnate per gli oppositori. TUTTO SOTTO IL NOME DI UNITA' D' ITALIA. Le promesse fatte da Garibaldi di togliere le terre ai signorotti per darle ai contadini, non furono mantenute. La situazione peggioro' sia per l' arroganza degli INVASORI, sia perche' furono imposte tasse elevatissime. Fu imposto il servizio militare che nel regno gia' era facoltativo.Avevamo infatti al nostro servizio mercenari Svizzeri. Ma la decisione peggiore fu la chiusura delle fabbriche e molte di esse furono trasferite al Nord . Nella Valle dell' IRNO, dove la popolazione era dedita alla lavorazione della lana, tantissimi operai restarono senza lavoro perché il Piemonte aveva stretto un accordo con l' Inghilterra, danneggiando il MERIDIONE. La stessa sorte subirono le numerose ferriere Irpine . I Borboni avevano stanziato molto denaro per la rete ferroviaria . Al SUD gia' esistevano 200 km di strada ferrata, cosa che non aveva il Nord. Furono confiscati i beni della Chiesa per favorire l, agricoltura in Padania. Si ricorda infatti l' energica protesta del vescovo d' Avellino Mons. GALLO per i soprusi perpretati ai danni di gente inerme ed innocente. Protesta che valse al Prelato la deportazione in un LAGER sulle Alpi. I signorotti "galantuomini", traditori meridionali , e i generali venduti si accorsero ben presto delle subdole intenzioni dei piemontesi : TROPPO TARDI. Anche il clero fu perseguitato isieme al disciolto esercito borbonico. Esercito Legittimo di un Stato Legittimo. Per destabilizzare ancor di piu'il Regno , furono aperte le carceri e fatti uscire tanti delinquenti che imperversarono sulle nostre contrade. Il popolo Meridionale Difese la Propria Terra; l' esercito sbandato cerco' di combattere l' invasore. Gente malavitosa fu accomunata dalla stampa a tantissima gente onesta. Ogni cosa che fu scritta in Europa era contro di noi. I nostri parlamentari che reclamarono per quanto stava succedendo furono ignorati , peggio ancora: derisi. I massacri non si fermarono. Furono emanate leggi repressive nei nostri confronti. Famosa la "Legge Pica". Per un nonnulla si veniva incriminati e seguivano esecuzioni sommarie contro un POPOLO che con pochissimi mezzi difendeva la propria Patria. I familiari degli uomini che si davano alla macchia per non arruolarsi nell' esercito invasore, venivano maltrattati, torturati uccisi. Quella che era stata la terra fertile e felice quella terra che tanti viaggiatori attraversandola l avevano denominata "giardino" tanto era ben coltivata , si impoverì . I frutteti erano il nostro orgoglio; gli agrumi venivano esportati in tutta Europa. Oggi in alcune zone del Nord, si usa a carnevale, inscenare una battaglia a colpi di arance, solo per gioco, in disprezzo della poverta'. Lo Svizzero Carlo Ulisse De Marschlins, non certo di parte, ha decantato le bellezze del nostro passato, lo si puo' leggere nei suoi scritti. NAPOLI era la Capitale della cultura. Il teatro S. Carlo era il fiore all' occhiello dell' Italia e uno dei maggiori d' Europa. Tanti Artisti stranieri dimoravano nella bella e calda citta'. Gli scavi di Pompei erano gia' frequentatissimi. Quel Popolo che si ribello' all' invasore fu marchiato con la parola "BRIGANTE" dall' idioma francese brigant che significa delinquente, bandito. Mi chiedo oggi che viviamo in un' Italia Unita anche se succubi di una certa politica nordista; ora che la nostra bandiera è il tricolore e che facciamo parte dell' Europa UNITA, perché si continua a insegnare nelle scuole, ai nostri figli MERIDIONALI, che Garibaldi fu un eroe ??????? E' ora di rendere ONORE AI NOSTRI BISNONNI, morti per difendere la NOSTRA TERRA, la NOSTRA CIVILTA', la NOSTRA LIBERTA'………… SE BRIGANTI FUMMO CHIAMATI ,CHIAMATECI ANCORA
" BRIGANTI " !!!!!!!!
Carmine Palatucci
Brigantaggio, legittima difesa del Sud di: Marina Carrese
È necessario istituire una Commissione che controlli la quantità di fandonie contenute nei testi scolastici di storia? Sembrerebbe di sì, a giudicare dalla cultura "ideologicamente corretta" che dilaga tra i nostri studenti e dal tono acido di chi si è opposto alla proposta.
È possibile che una mostra fotografica relativa a fatti avvenuti 140 anni fa metta in pericolo l’unità nazionale? Sembrerebbe di sì, a giudicare dal chiasso suscitato dalla mostra sul Risorgimento, presentata la scorsa estate al Meeting di Rimini, e dalle levate di scudi dei soliti noti "intellettuali".
È normale, per un Paese democraticamente maturo, che ogni accenno al passato più o meno recente tocchi un nervo scoperto dell’intellighenzia locale e scateni reazioni vicine all’isterismo? Si direbbe di no, e allora, come mai in Italia questo avviene sempre? Forse perché nella nostra storia ci sono ancora troppi nodi non sciolti che, sebbene sepolti sotto vari strati di retorica, continuano ad emergere alla prima occasione, e rivelano tutta la propria centralità. Uno di questi nodi, forse il principale, risale al periodo immediatamente seguente all’unificazione d’Italia ed ha un nome spaventoso ed oltraggioso insieme: Brigantaggio.
Cosa fu veramente il Brigantaggio e chi furono i briganti? Delinquenti o resistenti, malfattori o patrioti? Non è difficile intuire quanto vale la risposta a questa domanda e perché la questione Brigantaggio sia la prima da risolvere e la più dolorosa. Non solo in senso cronologico o per le migliaia di vite distrutte, ma perché l’interpretazione che ne fu data, e che è stata accettata dalla storiografia successiva, divenne la matrice dei rapporti tra Nord e Sud che si è perpetuata fino ai nostri giorni, e soprattutto perché ha radici profonde: se i briganti furono delinquenti, l’Italia nacque legittimamente, ma se i briganti furono patrioti e resistenti, allora è tutta un’altra storia.
Un notevole contributo alla ricerca della risposta ci viene dal volume Brigantaggio legittima difesa del Sud, edito dall’Editoriale Il Giglio (Napoli 2000, pagg. 206, lire 30.000), che ha il notevole pregio di raccogliere per la prima volta insieme i nove articoli che la prestigiosa rivista dei Gesuiti, La Civiltà Cattolica, dedicò, tra il 1861 e il 1870, al cosiddetto Brigantaggio e alla terribile repressione che lo Stato unitario mise in atto per annientarlo. Impreziositi dall’indicazione degli autori (in originale erano anonimi), gli articoli rappresentano una fonte storica incontestabile per attendibilità ed autorevolezza e, nel loro insieme, costituiscono una documentazione imprescindibile per far chiarezza su un periodo della storia d’Italia che presenta più ombre che luci e sul quale vige ancora in parte il segreto di Stato. La rivista cattolica, infatti, nonostante fosse schierata su posizioni antiunitarie e, anzi, sin dalla nascita nel 1850, avesse dichiarato apertamente un intento antagonista rispetto alla imperversante stampa liberale, divenne in breve un punto di riferimento, per il rigore e la solidità delle trattazioni e per l’indiscutibile formazione dei collaboratori, anche in quei salotti intellettuali e in quei caffè che animavano la scena politica e culturale dell’epoca. I suoi articoli si ripropongono a noi, oggi, come un osservatorio privilegiato, attento ed obiettivamente critico della vicenda storica italiana.
Cosa ci dicono del Brigantaggio i padri Gesuiti della "Civiltà Cattolica"? «Questo che voi chiamate con nome ingiurioso di Brigantaggio non è che una vera reazione dell’oppresso contro l’oppressore, della vittima contro il carnefice, del derubato contro il ladro, in una parola del diritto contro l’iniquità. L’idea che muove cotesta reazione è l’idea politica, morale e religiosa della giustizia, della proprietà, della libertà».
Non fenomeno delinquenziale, dunque, ma reazione del popolo contro un’invasione armata che lo spogliava del proprio Paese, della propria libertà, delle proprie ricchezze, del proprio legittimo Re. Il Brigantaggio, infatti, ebbe inizio letteralmente all’indomani della partenza per l’esilio del Re Francesco II di Borbone, avvenuta il 13 febbraio 1861; i paesi lucani di Tricarico, Montescaglioso, Stigliano, Lavello, Grottole, Laurenzana, Montemurro e Ferrandina si sollevarono il 15 del mese. In realtà, fino a quel momento, la popolazione non era stata inerte di fronte all’occupazione piemontese, ma aveva attivamente fiancheggiato le truppe dell’esercito borbonico.
Dopo la resa di Gaeta, le sollevazioni popolari si moltiplicarono in tutti i distretti del Regno, in una sorta di reazione a catena, e si andarono radunando bande armate, formate da contadini, artigiani, ex soldati borbonici sbandati, piccoli signori locali.
La guerra militare si trasformò in guerra civile, come scriveva padre Carlo Curci in un suo articolo. D’altra parte, la collaborazione dei Napoletani con garibaldini e piemontesi non era mai stata corale e anzi fu assolutamente inferiore anche alle aspettative degli stessi "liberatori".
Il popolo, per la maggior parte, sin dal primo momento dell’invasione, fu ostile e prese le armi. Lo confermano anche le parole, riportate da padre Carlo Piccirillo, di un testimone d’eccezione, Nino Bixio, braccio destro di Garibaldi e in seguito deputato. In una seduta parlamentare sulla repressione del brigantaggio siciliano, Bixio, tra lo sconcerto generale, disse: «La libertà della Sicilia non è opera della sola Sicilia, è opera dell’Italia.
Credete in me, vi dico la verità. Se le province d’Italia non avessero mandato alla Sicilia gli elementi che le hanno mandato, la Sicilia non sarebbe libera e noi non saremmo qui a parlare, saremmo stati strozzati. […] Eravamo circa quindicimila uomini: sei mila erano Veneti, cinque mila circa erano Lombardi, mille erano Toscani e tremila circa erano Siciliani. […] Mi si dirà che discorrendo di questi fatti, vengono fuori cose dolorose a sapersi. Ma il mondo è com’è, ed importa sempre conoscere il nostro Paese».
Solo tremila siciliani collaborarono con i garibaldini, su una popolazione di due milioni e mezzo! Questa dichiarazione di Bixio, che da sola basta a sfatare la leggenda risorgimentale delle "grida di dolore" giunte fino a Torino, è registrata negli Atti Ufficiali del Parlamento, e padre Piccirillo ne dà tutti i riferimenti.
La guerra dei briganti durò più di dieci anni e vide schierate quasi 500 bande, che riunivano da poche unità fino a 900 uomini. La repressione messa in atto dai Piemontesi fu violentissima sin dall’inizio, ma inefficace. Non bastò la metà dell’intero esercito italiano (120mila soldati), cioè 52 reggimenti di fanteria, 10 di granatieri, 5 di cavalleria e 19 battaglioni di bersaglieri, per avere ragione dei briganti; non bastarono neppure 7500 carabinieri e 84mila militi della guardia nazionale.
Il nuovo Regno d’Italia schierò ben 211.500 soldati e inviò i suoi ufficiali di maggior rilievo, come il principe Savoia Carignano, Cialdini, Pinelli, Negri, eppure per molto tempo non riuscì a distruggere neppure una banda, nonostante decine di migliaia di esecuzioni sommarie e una feroce rappresaglia che coinvolse familiari e compaesani dei combattenti.
Solo nei primi dieci mesi di combattimenti, furono fucilati 9860 briganti o presunti tali; 6 interi paesi furono dati alle fiamme (i più conosciuti sono Casalduni e Pontelandolfo); 13.629 persone furono imprigionate, la maggior parte senza processo. Come si potevano giustificare di fronte all’opinione pubblica italiana un simile schieramento di forze, tante atrocità e risultati tanto scarsi? Soprattutto, come si poteva giustificare l’accanita resistenza dei Meridionali contro i sedicenti "liberatori"? Quale spiegazione si poteva dare del fatto che le fila dei briganti continuassero ad ingrossarsi man mano che la piemontesizzazione procedeva? In Piemonte qualche dubbio cominciava a serpeggiare anche tra i liberali e i fautori del nuovo regno d’Italia; persino Massimo d’Azeglio scriveva: "[…] ci vogliono, e pare che non bastino, 60 battaglioni per tenere il Regno, ed è notorio che, briganti o non briganti, non tutti ne vogliono sapere. Mi diranno: e il suffragio universale? Io non so niente di suffragio, ma so che di qua dal Tronto non ci vogliono 60 battaglioni, e di là sì.
Dunque dev’esser corso qualche errore". Così, nel 1863, fu istituita una Commissione Parlamentare d’inchiesta, presieduta dal deputato Giuseppe Massari, che, dopo lunghi sopralluoghi ed altrettanto lunghe riflessioni, elaborò una Relazione, nella quale venivano indicate le "vere" cause del brigantaggio: la miseria delle popolazioni, dovuta ovviamente all’oppressione borbonica; la particolare asprezza orografica di alcune regioni e la mancanza di senso morale, tipica delle genti meridionali, testimoniata dal fatto che essere brigante era quasi una tradizione locale (sic!).
Il Parlamento preferì discutere la relazione in una seduta segreta. Forse perché neppure lo stesso Massari avrebbe avuto il coraggio di sostenere simili stupidaggini e menzogne di fronte alla stampa nazionale e soprattutto internazionale. La "Civiltà Cattolica" operò una serrata e acuta critica alle vergognose tesi del Massari, rilevandone falsità e contraddizioni. «I Briganti nel Napoletano non comparvero per lo addietro che in due epoche soltanto, nel 1796 cioè e nel 1806, vale a dire sempre e solo allorché lo spodestamento del loro Re legittimo, consigliò i più risoluti dei suoi sudditi ad opporsi colle armi in mano ai nuovi oppressori del loro Re – scrisse padre Carlo Piccirillo – Erano legittimisti che sorgevano a difendere una nobile causa, col pericolo della loro vita. Ritornarono i Borbone sul loro soglio e vi sedettero tranquillamente fino al 1860 e in tutto questo tempo non vi fu pure un solo caso di brigantaggio. […] Succede un nuovo assalimento di armi forestiere: ed ecco nuovamente in campo i briganti combattere ad oltranza gli oppressori del loro Principe sventurato.
Tre volte dunque esulano detronizzati i Borbone dal loro regno e tre volte il brigantaggio leva il suo capo arditamente a loro sostegno». La ricostruzione storica del gesuita è impeccabile e la definizione di legittimisti restituisce dignità ai popolani briganti e ai nobili stranieri, come José Borjes, Rafael Tristany, Emile de Christen e tanti altri, che combatterono con loro e che furono chiamati "avventurieri". L’articolo di padre Piccirillo continua con la confutazione, punto per punto, della Relazione: se la popolazione era povera perché affamata dai Borbone, come mai non si sollevò contro di essi e si sollevava allora contro i "liberatori"? Le cupe boscaglie e gli aspri monti, causa, secondo il Massari, dello spuntare di funghi e briganti, non esistevano già al tempo dei Borbone? La povertà c’era, sì, ma meno che nel passato e non più che altrove: dunque, come mai essa aveva dato tragici effetti solo all’arrivo dei Piemontesi?
Quanto poi alle altre cause, cioè lo scioglimento dell’esercito borbonico e la leva obbligatoria, indicate dal relatore come secondarie, non testimoniavano con forza che, piuttosto che soldati dei Savoia, i Meridionali preferivano essere Briganti e combattere per il proprio Re? Le tesi insulse e vergognosamente addomesticate della Relazione Massari ebbero come risultato la promulgazione della Legge Pica, che imponeva lo stato d’assedio e la corte marziale a tutte le regioni del Sud e la repressione militare del Brigantaggio, già di fatto praticata sin dall’inizio.
Chiunque fosse anche solo sospettato di essere un brigante poteva essere passato per le armi senza processo; chiunque aiutasse o non denunciasse un brigante, comprese madri, mogli e figlie, era passibile dell’ergastolo; chiunque circolasse senza lasciapassare incorreva nell’arresto; le famiglie di presunti briganti erano condannate al domicilio coatto: questi i provvedimenti presi. Nei primi due mesi di applicazione della Legge Pica si ebbero 1.035 esecuzioni e 6.564 arresti; ragazzine di appena dieci anni, colpevoli di essere figlie di briganti, furono condannate a vent’anni di carcere e furono separate dalle madri, anch’esse imprigionate; intere famiglie furono smembrate e deportate. «La Legge Pica, unico frutto della Commissione d’Inchiesta sul Brigantaggio, ha potuto riempire le carceri e le isole di sospetti, ha potuto costernare terre e province intere con inaudite vessazioni d’ogni sorta, ma non ha potuto distruggere una sola delle bande armate, anzi al contrario le ha fatte più numerose, più ardite e, ciò che è per tutti ugualmente deplorabile, più crudeli» scrisse padre Piccirillo nel suo articolo.
Gli anni tra il 1861 e il 1870 furono un lungo periodo di disumana violenza, durante il quale si seminarono disprezzo e odio; gli stessi soldati piemontesi ne furono travolti: ai 23mila uccisi in combattimento, bisogna aggiungere alcune centinaia di suicidi e poco meno di un migliaio di disertori, molti dei quali passarono dalla parte dei briganti. Sul fronte borbonico, invece, si contarono non meno di 250mila morti, tra combattenti, fucilati e prigionieri, e circa 500mila condannati; anche i deportati non furono certamente pochi, se entro il 1865 se ne contavano già 12mila.
Finanche la storiografia corrente ha riconosciuto che la repressione contro il Brigantaggio ha fatto più vittime di tutte le altre guerre risorgimentali messe insieme. «Qual nome meriti una setta scellerata che, a nome della fratellanza nazionale, sguinzaglia ed aizza una parte della nazione a sterminio dell’altra, perché il sangue dei manigoldi e delle vittime sia titolo e strumento del suo dominio?» chiedeva nel suo articolo padre Carlo Curci, e noi con lui.
Verso la fine del tremendo decennio, il Brigantaggio, decimato e incattivito, andò perdendo la spinta ideale che lo aveva animato e le bande rimaste si diedero, allora sì, ad atti di malavita, istigate anche dalla condizione di estrema povertà nella quale le regioni meridionali erano cadute e dalla nascita del latifondo, che toglieva ai contadini ogni possibilità di una sopravvivenza dignitosa.
Solo da quel momento in poi, la repressione piemontese prese il sopravvento: il Brigantaggio fu debellato definitivamente e i Meridionali andarono a cercare una nuova vita nelle Americhe, avviando un fenomeno del tutto sconosciuto fino nel Regno delle Due Sicilie.
Nel 1861, infatti, si contavano soltanto 220mila italiani residenti all’estero; nel 1914 erano 6 milioni. È inquietante, se si pensa che la popolazione dell’ex Regno napoletano era composta da 8 milioni di persone. L’esercito sardo aveva avuto la propria vittoria, ma non così il regno d’Italia: i briganti non erano distrutti, avevano trovato un’altra forma di resistenza, l’emigrazione.
È possibile che una mostra fotografica relativa a fatti avvenuti 140 anni fa metta in pericolo l’unità nazionale? Sembrerebbe di sì, a giudicare dal chiasso suscitato dalla mostra sul Risorgimento, presentata la scorsa estate al Meeting di Rimini, e dalle levate di scudi dei soliti noti "intellettuali".
È normale, per un Paese democraticamente maturo, che ogni accenno al passato più o meno recente tocchi un nervo scoperto dell’intellighenzia locale e scateni reazioni vicine all’isterismo? Si direbbe di no, e allora, come mai in Italia questo avviene sempre? Forse perché nella nostra storia ci sono ancora troppi nodi non sciolti che, sebbene sepolti sotto vari strati di retorica, continuano ad emergere alla prima occasione, e rivelano tutta la propria centralità. Uno di questi nodi, forse il principale, risale al periodo immediatamente seguente all’unificazione d’Italia ed ha un nome spaventoso ed oltraggioso insieme: Brigantaggio.
Cosa fu veramente il Brigantaggio e chi furono i briganti? Delinquenti o resistenti, malfattori o patrioti? Non è difficile intuire quanto vale la risposta a questa domanda e perché la questione Brigantaggio sia la prima da risolvere e la più dolorosa. Non solo in senso cronologico o per le migliaia di vite distrutte, ma perché l’interpretazione che ne fu data, e che è stata accettata dalla storiografia successiva, divenne la matrice dei rapporti tra Nord e Sud che si è perpetuata fino ai nostri giorni, e soprattutto perché ha radici profonde: se i briganti furono delinquenti, l’Italia nacque legittimamente, ma se i briganti furono patrioti e resistenti, allora è tutta un’altra storia.
Un notevole contributo alla ricerca della risposta ci viene dal volume Brigantaggio legittima difesa del Sud, edito dall’Editoriale Il Giglio (Napoli 2000, pagg. 206, lire 30.000), che ha il notevole pregio di raccogliere per la prima volta insieme i nove articoli che la prestigiosa rivista dei Gesuiti, La Civiltà Cattolica, dedicò, tra il 1861 e il 1870, al cosiddetto Brigantaggio e alla terribile repressione che lo Stato unitario mise in atto per annientarlo. Impreziositi dall’indicazione degli autori (in originale erano anonimi), gli articoli rappresentano una fonte storica incontestabile per attendibilità ed autorevolezza e, nel loro insieme, costituiscono una documentazione imprescindibile per far chiarezza su un periodo della storia d’Italia che presenta più ombre che luci e sul quale vige ancora in parte il segreto di Stato. La rivista cattolica, infatti, nonostante fosse schierata su posizioni antiunitarie e, anzi, sin dalla nascita nel 1850, avesse dichiarato apertamente un intento antagonista rispetto alla imperversante stampa liberale, divenne in breve un punto di riferimento, per il rigore e la solidità delle trattazioni e per l’indiscutibile formazione dei collaboratori, anche in quei salotti intellettuali e in quei caffè che animavano la scena politica e culturale dell’epoca. I suoi articoli si ripropongono a noi, oggi, come un osservatorio privilegiato, attento ed obiettivamente critico della vicenda storica italiana.
Cosa ci dicono del Brigantaggio i padri Gesuiti della "Civiltà Cattolica"? «Questo che voi chiamate con nome ingiurioso di Brigantaggio non è che una vera reazione dell’oppresso contro l’oppressore, della vittima contro il carnefice, del derubato contro il ladro, in una parola del diritto contro l’iniquità. L’idea che muove cotesta reazione è l’idea politica, morale e religiosa della giustizia, della proprietà, della libertà».
Non fenomeno delinquenziale, dunque, ma reazione del popolo contro un’invasione armata che lo spogliava del proprio Paese, della propria libertà, delle proprie ricchezze, del proprio legittimo Re. Il Brigantaggio, infatti, ebbe inizio letteralmente all’indomani della partenza per l’esilio del Re Francesco II di Borbone, avvenuta il 13 febbraio 1861; i paesi lucani di Tricarico, Montescaglioso, Stigliano, Lavello, Grottole, Laurenzana, Montemurro e Ferrandina si sollevarono il 15 del mese. In realtà, fino a quel momento, la popolazione non era stata inerte di fronte all’occupazione piemontese, ma aveva attivamente fiancheggiato le truppe dell’esercito borbonico.
Dopo la resa di Gaeta, le sollevazioni popolari si moltiplicarono in tutti i distretti del Regno, in una sorta di reazione a catena, e si andarono radunando bande armate, formate da contadini, artigiani, ex soldati borbonici sbandati, piccoli signori locali.
La guerra militare si trasformò in guerra civile, come scriveva padre Carlo Curci in un suo articolo. D’altra parte, la collaborazione dei Napoletani con garibaldini e piemontesi non era mai stata corale e anzi fu assolutamente inferiore anche alle aspettative degli stessi "liberatori".
Il popolo, per la maggior parte, sin dal primo momento dell’invasione, fu ostile e prese le armi. Lo confermano anche le parole, riportate da padre Carlo Piccirillo, di un testimone d’eccezione, Nino Bixio, braccio destro di Garibaldi e in seguito deputato. In una seduta parlamentare sulla repressione del brigantaggio siciliano, Bixio, tra lo sconcerto generale, disse: «La libertà della Sicilia non è opera della sola Sicilia, è opera dell’Italia.
Credete in me, vi dico la verità. Se le province d’Italia non avessero mandato alla Sicilia gli elementi che le hanno mandato, la Sicilia non sarebbe libera e noi non saremmo qui a parlare, saremmo stati strozzati. […] Eravamo circa quindicimila uomini: sei mila erano Veneti, cinque mila circa erano Lombardi, mille erano Toscani e tremila circa erano Siciliani. […] Mi si dirà che discorrendo di questi fatti, vengono fuori cose dolorose a sapersi. Ma il mondo è com’è, ed importa sempre conoscere il nostro Paese».
Solo tremila siciliani collaborarono con i garibaldini, su una popolazione di due milioni e mezzo! Questa dichiarazione di Bixio, che da sola basta a sfatare la leggenda risorgimentale delle "grida di dolore" giunte fino a Torino, è registrata negli Atti Ufficiali del Parlamento, e padre Piccirillo ne dà tutti i riferimenti.
La guerra dei briganti durò più di dieci anni e vide schierate quasi 500 bande, che riunivano da poche unità fino a 900 uomini. La repressione messa in atto dai Piemontesi fu violentissima sin dall’inizio, ma inefficace. Non bastò la metà dell’intero esercito italiano (120mila soldati), cioè 52 reggimenti di fanteria, 10 di granatieri, 5 di cavalleria e 19 battaglioni di bersaglieri, per avere ragione dei briganti; non bastarono neppure 7500 carabinieri e 84mila militi della guardia nazionale.
Il nuovo Regno d’Italia schierò ben 211.500 soldati e inviò i suoi ufficiali di maggior rilievo, come il principe Savoia Carignano, Cialdini, Pinelli, Negri, eppure per molto tempo non riuscì a distruggere neppure una banda, nonostante decine di migliaia di esecuzioni sommarie e una feroce rappresaglia che coinvolse familiari e compaesani dei combattenti.
Solo nei primi dieci mesi di combattimenti, furono fucilati 9860 briganti o presunti tali; 6 interi paesi furono dati alle fiamme (i più conosciuti sono Casalduni e Pontelandolfo); 13.629 persone furono imprigionate, la maggior parte senza processo. Come si potevano giustificare di fronte all’opinione pubblica italiana un simile schieramento di forze, tante atrocità e risultati tanto scarsi? Soprattutto, come si poteva giustificare l’accanita resistenza dei Meridionali contro i sedicenti "liberatori"? Quale spiegazione si poteva dare del fatto che le fila dei briganti continuassero ad ingrossarsi man mano che la piemontesizzazione procedeva? In Piemonte qualche dubbio cominciava a serpeggiare anche tra i liberali e i fautori del nuovo regno d’Italia; persino Massimo d’Azeglio scriveva: "[…] ci vogliono, e pare che non bastino, 60 battaglioni per tenere il Regno, ed è notorio che, briganti o non briganti, non tutti ne vogliono sapere. Mi diranno: e il suffragio universale? Io non so niente di suffragio, ma so che di qua dal Tronto non ci vogliono 60 battaglioni, e di là sì.
Dunque dev’esser corso qualche errore". Così, nel 1863, fu istituita una Commissione Parlamentare d’inchiesta, presieduta dal deputato Giuseppe Massari, che, dopo lunghi sopralluoghi ed altrettanto lunghe riflessioni, elaborò una Relazione, nella quale venivano indicate le "vere" cause del brigantaggio: la miseria delle popolazioni, dovuta ovviamente all’oppressione borbonica; la particolare asprezza orografica di alcune regioni e la mancanza di senso morale, tipica delle genti meridionali, testimoniata dal fatto che essere brigante era quasi una tradizione locale (sic!).
Il Parlamento preferì discutere la relazione in una seduta segreta. Forse perché neppure lo stesso Massari avrebbe avuto il coraggio di sostenere simili stupidaggini e menzogne di fronte alla stampa nazionale e soprattutto internazionale. La "Civiltà Cattolica" operò una serrata e acuta critica alle vergognose tesi del Massari, rilevandone falsità e contraddizioni. «I Briganti nel Napoletano non comparvero per lo addietro che in due epoche soltanto, nel 1796 cioè e nel 1806, vale a dire sempre e solo allorché lo spodestamento del loro Re legittimo, consigliò i più risoluti dei suoi sudditi ad opporsi colle armi in mano ai nuovi oppressori del loro Re – scrisse padre Carlo Piccirillo – Erano legittimisti che sorgevano a difendere una nobile causa, col pericolo della loro vita. Ritornarono i Borbone sul loro soglio e vi sedettero tranquillamente fino al 1860 e in tutto questo tempo non vi fu pure un solo caso di brigantaggio. […] Succede un nuovo assalimento di armi forestiere: ed ecco nuovamente in campo i briganti combattere ad oltranza gli oppressori del loro Principe sventurato.
Tre volte dunque esulano detronizzati i Borbone dal loro regno e tre volte il brigantaggio leva il suo capo arditamente a loro sostegno». La ricostruzione storica del gesuita è impeccabile e la definizione di legittimisti restituisce dignità ai popolani briganti e ai nobili stranieri, come José Borjes, Rafael Tristany, Emile de Christen e tanti altri, che combatterono con loro e che furono chiamati "avventurieri". L’articolo di padre Piccirillo continua con la confutazione, punto per punto, della Relazione: se la popolazione era povera perché affamata dai Borbone, come mai non si sollevò contro di essi e si sollevava allora contro i "liberatori"? Le cupe boscaglie e gli aspri monti, causa, secondo il Massari, dello spuntare di funghi e briganti, non esistevano già al tempo dei Borbone? La povertà c’era, sì, ma meno che nel passato e non più che altrove: dunque, come mai essa aveva dato tragici effetti solo all’arrivo dei Piemontesi?
Quanto poi alle altre cause, cioè lo scioglimento dell’esercito borbonico e la leva obbligatoria, indicate dal relatore come secondarie, non testimoniavano con forza che, piuttosto che soldati dei Savoia, i Meridionali preferivano essere Briganti e combattere per il proprio Re? Le tesi insulse e vergognosamente addomesticate della Relazione Massari ebbero come risultato la promulgazione della Legge Pica, che imponeva lo stato d’assedio e la corte marziale a tutte le regioni del Sud e la repressione militare del Brigantaggio, già di fatto praticata sin dall’inizio.
Chiunque fosse anche solo sospettato di essere un brigante poteva essere passato per le armi senza processo; chiunque aiutasse o non denunciasse un brigante, comprese madri, mogli e figlie, era passibile dell’ergastolo; chiunque circolasse senza lasciapassare incorreva nell’arresto; le famiglie di presunti briganti erano condannate al domicilio coatto: questi i provvedimenti presi. Nei primi due mesi di applicazione della Legge Pica si ebbero 1.035 esecuzioni e 6.564 arresti; ragazzine di appena dieci anni, colpevoli di essere figlie di briganti, furono condannate a vent’anni di carcere e furono separate dalle madri, anch’esse imprigionate; intere famiglie furono smembrate e deportate. «La Legge Pica, unico frutto della Commissione d’Inchiesta sul Brigantaggio, ha potuto riempire le carceri e le isole di sospetti, ha potuto costernare terre e province intere con inaudite vessazioni d’ogni sorta, ma non ha potuto distruggere una sola delle bande armate, anzi al contrario le ha fatte più numerose, più ardite e, ciò che è per tutti ugualmente deplorabile, più crudeli» scrisse padre Piccirillo nel suo articolo.
Gli anni tra il 1861 e il 1870 furono un lungo periodo di disumana violenza, durante il quale si seminarono disprezzo e odio; gli stessi soldati piemontesi ne furono travolti: ai 23mila uccisi in combattimento, bisogna aggiungere alcune centinaia di suicidi e poco meno di un migliaio di disertori, molti dei quali passarono dalla parte dei briganti. Sul fronte borbonico, invece, si contarono non meno di 250mila morti, tra combattenti, fucilati e prigionieri, e circa 500mila condannati; anche i deportati non furono certamente pochi, se entro il 1865 se ne contavano già 12mila.
Finanche la storiografia corrente ha riconosciuto che la repressione contro il Brigantaggio ha fatto più vittime di tutte le altre guerre risorgimentali messe insieme. «Qual nome meriti una setta scellerata che, a nome della fratellanza nazionale, sguinzaglia ed aizza una parte della nazione a sterminio dell’altra, perché il sangue dei manigoldi e delle vittime sia titolo e strumento del suo dominio?» chiedeva nel suo articolo padre Carlo Curci, e noi con lui.
Verso la fine del tremendo decennio, il Brigantaggio, decimato e incattivito, andò perdendo la spinta ideale che lo aveva animato e le bande rimaste si diedero, allora sì, ad atti di malavita, istigate anche dalla condizione di estrema povertà nella quale le regioni meridionali erano cadute e dalla nascita del latifondo, che toglieva ai contadini ogni possibilità di una sopravvivenza dignitosa.
Solo da quel momento in poi, la repressione piemontese prese il sopravvento: il Brigantaggio fu debellato definitivamente e i Meridionali andarono a cercare una nuova vita nelle Americhe, avviando un fenomeno del tutto sconosciuto fino nel Regno delle Due Sicilie.
Nel 1861, infatti, si contavano soltanto 220mila italiani residenti all’estero; nel 1914 erano 6 milioni. È inquietante, se si pensa che la popolazione dell’ex Regno napoletano era composta da 8 milioni di persone. L’esercito sardo aveva avuto la propria vittoria, ma non così il regno d’Italia: i briganti non erano distrutti, avevano trovato un’altra forma di resistenza, l’emigrazione.
sabato 14 aprile 2012
UTILE BIBLIOGRAFIA SULLA VERA STORIA DEL RISORGIMENTO
* Fulvio Izzo, "I Lager dei Savoia" (1999), Ed. Controcorrente
* Di Fiore Gigi, "Controstoria dell'Unità d'Italia. Fatti e misfatti del Risorgimento", Ed. Rizzoli
* Del Boca Lorenzo, "Indietro Savoia! Storia controcorrente del Risorgimento italiano", Ed. Piemme (collana Piemme pocket)
* Del Boca Lorenzo, "Maledetti Savoia", Ed. Piemme (collana Piemme pocket)
*Nicola Zitara, L'unità truffaldina, (liberamente scaricabile in formato HTML o RTF)
*Giuseppe Ressa e Alfonso Grasso, Il Sud e l'unità d'Italia, (e-book)
*Autori Vari, La Storia Proibita - Quando i Piemontesi invasero il Sud - Edizioni Controcorrente, Napoli 2001
*Carlo Scarfoglio, Il Mezzogiorno e l'unità d'Italia, Parenti Firenze
* Nicola Zitara, L'Unità d'Italia: nascita di una colonia
* Nicola Zitara, Tutta l'ègalitè, estratto dalla rivista Separatismo
* Nicola Zitara, Memorie di quand'ero italiano
*Carlo Capecelatro , Contro la questione meridionale, Savelli, Roma
*M. R. Cutrufelli, L'unità d'Italia: guerra contadina e nascita del sottosviluppo del Sud, Bertani Editore, Verona
*Antonio Ciano, I Savoia e il massacro del Sud, Grandmelò
* Angela Pellicciari, I panni sporchi dei Mille, (Liberal Edizioni)
*Antonio Grano, La chiamarono Unità d'Italia..., Napoli, Antonio Grano, 2009
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* Pierluigi Moschitti, Briganti e musica popolare dal nord al Sud, Gaeta, Sistema Bibliotecario Sud Pontino
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* Leonida Costa, Il rovescio della medaglia: storia inedita del brigante Stefano Pelloni detto il Passatore, Fratelli Lega, 1976.
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* Valentino Romano, Brigantesse. Donne guerrigliere contro la conquista del Sud, Napoli, Crontrocorrente, 2007.
* APRILE Pino - Terroni. Tutto quello che è stato fatto perché gli italiani del Sud diventassero «meridionali»
* DI FIORE Gigi - I vinti del Risorgimento. Storia e storie di chi combatté per i Borbone di Napoli
* DI FIORE Gigi - Gli ultimi giorni di Gaeta. L'assedio che condannò l'Italia all'Unità
* GUERRI Giordano Bruno - Il sangue del Sud. Antistoria del Risorgimento e del brigantaggio
* LENTINI Gerlando - La bugia risorgimentale. Il Risorgimento italiano dalla parte degli sconfitti
* PAGANO Antonio – Due Sicilie, 1830 – 1880 – Capone, 2002
* DI FIORE Gigi – 1861 Pontelandolfo e Casalduni. Un massacro dimenticato – Grimaldi & C. ed. 1998
* Rinaldi Gustavo - Garibaldi,l'avventuriero, il massone, l'opportunista - Controcorrente
* Di Fiore Gigi, "Controstoria dell'Unità d'Italia. Fatti e misfatti del Risorgimento", Ed. Rizzoli
* Del Boca Lorenzo, "Indietro Savoia! Storia controcorrente del Risorgimento italiano", Ed. Piemme (collana Piemme pocket)
* Del Boca Lorenzo, "Maledetti Savoia", Ed. Piemme (collana Piemme pocket)
*Nicola Zitara, L'unità truffaldina, (liberamente scaricabile in formato HTML o RTF)
*Giuseppe Ressa e Alfonso Grasso, Il Sud e l'unità d'Italia, (e-book)
*Autori Vari, La Storia Proibita - Quando i Piemontesi invasero il Sud - Edizioni Controcorrente, Napoli 2001
*Carlo Scarfoglio, Il Mezzogiorno e l'unità d'Italia, Parenti Firenze
* Nicola Zitara, L'Unità d'Italia: nascita di una colonia
* Nicola Zitara, Tutta l'ègalitè, estratto dalla rivista Separatismo
* Nicola Zitara, Memorie di quand'ero italiano
*Carlo Capecelatro , Contro la questione meridionale, Savelli, Roma
*M. R. Cutrufelli, L'unità d'Italia: guerra contadina e nascita del sottosviluppo del Sud, Bertani Editore, Verona
*Antonio Ciano, I Savoia e il massacro del Sud, Grandmelò
* Angela Pellicciari, I panni sporchi dei Mille, (Liberal Edizioni)
*Antonio Grano, La chiamarono Unità d'Italia..., Napoli, Antonio Grano, 2009
* Pino Aprile, Terroni.Tutto quello che è stato fatto perché gli italiani del Sud diventassero meridionali, Piemme, 2010
*Marc Monnier, Il Brigantaggio da Fra’ Diavolo a Crocco, Lecce, Capone
* Pierluigi Moschitti, Briganti e musica popolare dal nord al Sud, Gaeta, Sistema Bibliotecario Sud Pontino
* Francesco Saverio Nitti, Eroi e briganti, Milano, Longanesi, 1946.
* Massimo Dursi, Stefano Pelloni detto il passatore: cronache popolari, Giulio Einaudi Editore, 1963.
* Franco Molfese, Storia del brigantaggio dopo l’Unità, Giangiacomo Feltrinelli Editore, 1966.
* Aldo De Jaco, Il brigantaggio meridionale: cronaca inedita dell'Unità d'Italia, Editori Riuniti, 1969.
* Vincenzo Carella, Il brigantaggio politico nel brindisino dopo l'Unità, Fasano, Grafischena, 1974.
* Gaetano Cingari, Brigantaggio, proprietari e contadini nel Sud (1799-1900), Reggio Calabria, Editori Riuniti, 1976.
* Leonida Costa, Il rovescio della medaglia: storia inedita del brigante Stefano Pelloni detto il Passatore, Fratelli Lega, 1976.
* Francesco Barra, Cronache del Brigantaggio Meridionale (1806-1815), Salerno, S.E.M., 1981.
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* Josè Borjes, Tommaso Pedio (a cura di) La mia vita tra i Briganti, Manduria, Lacaita,
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* Josè Borjes, Con Dio e per il Re. Diario di guerra del generale legittimista in missione impossibile per salvare il Regno delle Due Sicilie, Napoli, Controcorrente, 2005.
* Luigi Capuana, Carlo Ruta (a cura di) La Sicilia e il brigantaggio, Messina, Edi.bi.si., 2005.
* Salvatore Scarpino, La guerra cafona: Il brigantaggio meridionale contro la Stato unitario, Milano, Boroli Editore, 2005.
* Francesco Gaudioso, Il potere di punire e perdonare. Banditismo e politiche criminali nel Regno di Napoli in età moderna, Galatina, Congedo, 2006.
* Raffaele Nigro, Giustiziateli sul campo. Letteratura e banditismo da Robin Hood ai giorni nostri, Milano, Rizzoli Editore, 2006.
* Maria Procino, Donne contro: le brigantesse streghe dell’Appennino, in «SLM- Sopra il livello del mare» Rivista dell’Istituto Nazionale della montagna, n. 28, 2006.
* Valentino Romano, Brigantesse. Donne guerrigliere contro la conquista del Sud, Napoli, Crontrocorrente, 2007.
* APRILE Pino - Terroni. Tutto quello che è stato fatto perché gli italiani del Sud diventassero «meridionali»
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* GUERRI Giordano Bruno - Il sangue del Sud. Antistoria del Risorgimento e del brigantaggio
* LENTINI Gerlando - La bugia risorgimentale. Il Risorgimento italiano dalla parte degli sconfitti
* PAGANO Antonio – Due Sicilie, 1830 – 1880 – Capone, 2002
* DI FIORE Gigi – 1861 Pontelandolfo e Casalduni. Un massacro dimenticato – Grimaldi & C. ed. 1998
* Rinaldi Gustavo - Garibaldi,l'avventuriero, il massone, l'opportunista - Controcorrente
mercoledì 11 aprile 2012
Il brigantaggio come forma di resistenza
Il brigantaggio è nato come forma di resistenza. Resistenza ad un invasore, perchè tale fu il governo sabaudo nei confronti del Regno delle due Sicilie. Non esisteva un sentimento di unità nazionale, non esisteva un'esigenza contingente avvertita sia dal nord che dal sud, non esisteva un sentire comune che giustificasse la cosiddetta "liberazione" di un territorio che nel momento stesso in cui vide affacciarsi i piemontesi avvertì lo stesso senso di invasione che fino ad allora aveva caratterizzato la storia meridionale. Sbaglia chi sostiene che esisteva un sentimento comune, sbaglia perchè la Sicilia era la sola regione a combattere una guerra contro Napoli e fu proprio sulla spinta della leva siciliana che si trovò la strada per minare il Regno delle due Sicilie nel chiaro intento di attingere alle riserve auree. La storia dell'unità d'Italia è fortemente macchiata del sangue di quanti non vollero piegarsi ad una logica di sfruttamento, di invasione e di sopruso. La dominazione dei Borbone non si poteva definire una condizione di vita ideale, ma non poteva e non doveva essere il trampolino per un'unificazione dei territori che ebbe il solo pretesto di trasferire le ingenti ricchezze meridionali nel nord del paese. Se da un lato il nord viveva una disperata crisi finanziaria, dall'altro lato il sud vantava riserve auree per un totale di circa 443 milioni di lire (che rapportati al numero degli abitanti corrispondeva a più del doppio degli stati europei). La crisi finanziaria del nord fu dovuta ad una politica dissennata per cui venne contratto un debito per coprire un altro debito (finanziato dal banchiere J.Rothschild). Anche la politica estera del governo piemontese incise profondamente sulle casse dello stato e lo fece a tal punto che il debito per la spedizione di Crimea fu estinto solo 50 anni più tardi. Con l'annessione il Regno di Sardegna riversò nelle casse della neonata Italia solo i suoi debiti, mentre le riserve auree del Regno delle due Sicilie servirono a dare nuova linfa vitale all'economia del nord del paese. L'economia del sud del paese fu invece definitivamente messa in ginocchio con i terreni espropriati, con la leva obbligatoria e con le tasse che in soli 3 anni dall'unità raddoppiarono. Una serie di concause che spinsero migliaia di meridionali ad emigrare in cerca di quelle condizioni di vita che ormai il sud non poteva più offrire.
TRATTO DA: Giuseppe Ressa, Il Sud e l'unità d'Italia, Napoli 2003
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