sabato 28 aprile 2012

I Briganti hanno il dovere di essere persone migliori.

Siamo stati un grande popolo, abbiamo una grande storia.
Non c'era alcun bisogno che arrivasse Garibaldi per insegnarci la libertà, sapevamo difenderla per antiche virtù, l'avevamo difesa in cento passaggi della storia. Siamo stati grandi quanto gli altri, qualche volta più degli altri. Siamo stati civili quanto gli altri, qualche volta più degli altri. Il nostro passato non è lontano millenni, come si racconta, ma solo centocinquant'anni. E' necessario che la coltre di bugie che circonda la nostra identità collettiva sia fugata. La consapevolezza del passato ci aprirà gli occhi e ci permetterà di guardare al futuro. (N. Zitara)

E’ vero, la “Questione Meridionale” esiste a causa dell’Unità d’Italia e non malgrado essa, come hanno voluto farci credere per 150 anni.
E’ vero, ci hanno “regalato” le Mafie.
E’ vero, ci hanno ridotto allo stato di una “colonia interna”, dal 1861 sfruttano le nostre risorse, mentre noi alimentiamo la loro economia in uno stato di sudditanza etico-sociale.

E’ vero, è tutto vero.
Ma è vera anche un’altra cosa, tutto questo ha fatto precipitare la nostra coscienza collettiva in una sorta di torpore e fatalità, nel migliore dei casi, di lassismo e connivenza, nel peggiore.
Dobbiamo uscire da questa spirale perversa in cui siamo caduti (per meglio dire, in cui ci hanno spinto!), i Briganti hanno il dovere di essere persone migliori, i Briganti hanno il dovere di rendere “gli altri” persone migliori, attraverso la consapevolezza di ciò che eravamo e la convinzione di ciò che possiamo e che dobbiamo essere, un popolo dignitoso, con i piedi affondati nella nostra Terra e la testa aperta al mondo.
Abbiamo il dovere di essere coerenti con noi stessi e verso gli altri, abbiamo il diritto di pretendere un futuro migliore, abbiamo il dovere di pretendere un futuro migliore. (Antonio Panico)

venerdì 27 aprile 2012

L'unità fu fatta per sfruttarne la parte ricca

La produzione italiana di petrolio rappresenta circa il 7% del consumo totale di petrolio in Italia, il rimanente 93% viene importato. Di questo 7% la maggior parte viene estratto nel Sud Italia, portando rischi e conseguenze ambientali, ma anche scarse opportunita' di lavoro e ridicoli guadagni sulle royalities, che tra altro sono le piu' basse del mondo e nessun rientro agli enti locali o alle comunita' dove si estrae il petrolio.Nel Mezzogiorno il consumo reale di petrolio si agira in grosso modo intorno al 16-17% del consumo totale di petrolio in Italia, se ora facciamo due conti si scopre che se ipoteticamente si consumano 100x di petrolio in Italia, il Sud ha la sua parte di consumo intorno ai 17x di petrolio, se ora al Sud ne produciamo 7x, quale è il bisogno reale di importazione di petrolio per il Sud? Facile 7x/17x=41,2% è quello che produciamo del consumo totale di petrolio per il Sud, 100%-41,2%=58,8%, il Sud se fosse nazione indipendente dovrebbe importare il 58,8% del suo fabbisogno di petrolio a confronto a l'Italia Unita che ne deve importare il 93%. A questo c'è da chierersi in maniera indignata chi CAZZO è il PARASSITA???
Questo discorso l'hanno fatto i leghisti ma al contrario sulla produzione di energia elettrica, infatti oggi siamo al federalismo energetico, almeno quella parte che riguarda i consumi ed i costi energetici e nessuno sembra averlo notato. L'art. 3 del Dl 185/08 2009, anche chiamato "Decreto anticrisi" imposto con voto di fiducia alla fine di gennaio 2009, al comma 12 dice: "Entro 24 mesi dall'entrata in vigore del presente decreto-legge, l'Autorità per l'energia elettrica ed il gas, su proposta del gestore della rete di trasmissione nazionale, suddivide la rete rilevante in tre macro-zone."
In parole povere il governo ha deciso di dividere in tre parti l'Italia anche dal punto di vista energetico, cosa che porta alla differenziazione del sistema delle tariffe, attualmente determinato dall'Authority nazionale dell'energia elettrica, la quale stabilisce il prezzo unico in bolletta, calcolandolo in base ai costi medi di generazione dell'energia offerti dai grossisti alla borsa elettrica. In un colpo solo il governo è riuscito a mettere a segno due obiettivi storici privatizzazione e secessione: il prezzo dell'energia verrà calcolato non più a livello nazionale ma indipendentemente nelle tre macro-aree, e non più sulla base dei costi di generazione bensì sulla base dei prezzi di vendita offerti dalle diverse aziende (art. 3 comma a). Anche se il decreto parla di massimo 3 macro Aree (Nord, Centro e Sud) con l'impellente federalismo fiscale si rischia no lo spezzettamento in tre parti, ma la polverizzazione del sistema energetico: nella migliore delle ipotesi le "macro-aree" saranno 20 quante sono le regioni italiane, nella peggiore saranno quante le province, cosa che chiedono una gran parte degli industriali del nord-est. Di certo c'è che il Sud sarà gravemente penalizzato in quanto è noto che nelle Regioni del Mezzogiorno il costo dell'energia e del gas è più alto a causa della mancanza di efficaci infrastrutture energetiche di sostegno: ancora oggi molte zone dell'Italia meridionale non sono collegate alla rete nazionale mentre le perdite e le disfunzioni nella distribuzione di energia e gas sono all'ordine del giorno, mentre il sistema produttivo primario e secondario è al collasso. Al Sud il costo è più alto anche perchè l'energia elettrica prodotta al Sud sale verso il Nord mentre quella prodotta in eccesso nel Nord non viene trasferita al Sud. C'è da tenere in mente che il fabbisogno elettrico del Sud è di una massima di 4 miliardi di kilowattora al mese (cioè ca. 15% del totale nazionale).
Cosa sta per succedere lo si può quindi dedurre leggendo le attuali incredibili asimmetrie di prezzo registrate dalla Terna (il gestore della rete di trasporto dell'energia): se il prezzo medio per megawatt dell'energia elettrica in Italia è di ca. 115 euro, 1 megawatt di elettricità prodotto nel Settentrione costa ca. 107 euro, al Centro e nel Meridione ca. 123 euro, in Sardegna 113 euro e in Sicilia la stratosferica cifra di 171 euro, oltre 55 euro sopra la media nazionale.
Un costo basso dell'energia elettrica e del gas è di enorme importanza per lo sviluppo economico delle Sud, la Sicilia, ad esempio, è destinata ad essere tagliata letteralmente fuori dal sistema produttivo. Come potrà competere se solamente l'approvvigionamento energetico costa circa un 45% in più del Nord?
Se consideriamo l'aumento complessivo del 22,5% nel 2008, in definitiva in Sicilia l'energia elettrica arriva a costare in un solo anno quasi il 69% in più rispetto alla media nazionale dell'anno prima. Senza considerare gli effetti sociali del provvedimento sulle condizioni di vita delle masse popolari siciliane, già ridotte a stenti estremi, che peggioreranno ulteriormente in quanto è facile prevedere che in Sicilia ci saranno le bollette dell'energia più salate d'Italia. Il provvedimento acquista quindi il sapore della beffa ed ha secondo me un solo obbiettivo di abbassare il costo energetico per gli industriali del Nord ed indirettamente anche per chi vive al Nord.
Perché la Sicilia, a fronte di un basso consumo, esporta energia, ospita centrali termoelettriche ed è attraversata dalla condotta di gas che viene dall'Algeria ha i costi piu' alti d'Italia è per me un mistero. Il Sud continentale complessivamente avra' la stessa penalizzazione come la Sicilia ma no cosi estremamente ingiusta.
La beffa raddoppia per la Sicilia, oltre alla disuguaglianza nel trattamento economico, sta nel fatto che la Sicilia deve fare i conti con i danni ambientali dell'area petrolchimica, la devastazione del paesaggio, l'inquinamento di acqua, aria e suolo. Dovrebbe essere il resto d'Italia ad essere in debito energetico con la Sicilia! Lo stesso discorso vale anche per la Lucania e per la Puglia in cui l'82% dell'energia prodotta, da procedimenti industriali ad altissimo impatto ambientale con gravi conseguenze sanitarie, è "devoluta" al "sistema-Paese". In generale l'aumento delle bollette elettriche nel Sud diviene intollerabile se si tiene conto della qualità dei servizi offerti: i valori medi di continuità del servizio sono ben lontani da quelli del Nord dove la media è di 2,6 interruzioni per utente all'anno (121 minuti persi per utente), mentre al Sud la media sale a 5,4 interruzioni per utente all'anno (270 minuti persi per utente).
Questi valori sono medie ponderate che tengono conto del fatto che l'Enel serve sia territori urbani che rurali; ma l'analisi di dettaglio mostra differenze rilevanti anche tra le diverse zone urbane (1,4 interruzioni per utente all'anno nelle aree urbane del Nord contro 2,8 interruzioni per utente all'anno in quelle del Sud) o delle sole zone rurali (3,5 interruzioni per utente all'anno nelle aree rurali del nord contro 7,6 interruzioni per utente all'anno in quelle del Sud).
Mentre i governatori del Mezzogiorno, compreso Nichi Vendola non hanno mosso un dito per bloccare i mafio-leghisti secessionisti, a lanciare per tempo l'allarme, inascoltato, è stato il segretario nazionale del Codacons Francesco Tanasi, che alla vigilia dell'approvazione del provvedimento si rivolgeva così ai parlamentari: "Deputati eletti in Sicilia: è vostro obbligo morale e civile votare no al decreto che ridefinisce i costi dell'elettricità in Italia secondo tre macroaree, a tutto discapito della Sicilia". Si tratta "di un sopruso inaccettabile".
I nostri parlamentari, meridionali eletti dai meridionali si vendono il sangue della gente del Sud.
"Non possono decidere così, arbitrariamente di favorire una parte del Paese rispetto ad un'altra. Ed è invece quello che stanno facendo....".
Questo ennesimo piano criminoso dei mafio-leghisti e della Confindustria che il governo Berlusconi sta realizzando grazie alla connivenza ed impotenza dell' opposizione, che tra altro neache essa fa un cazzo per aiutare il Sud, inverte le storiche, ma fasulle priorità d'intervento della politica economica italiana, la sedicente questione settentrionale viene posta in primo piano e il Sud, che avrebbe bisogno di pagare un prezzo più basso dell'energia per uscire dal sottosviluppo, è relegato invece a sopportare il peso di coprire le perdite del Nord.
Antonio Costato, vicepresidente della Confindustria per l'energia e il mercato, presidente degli industriali di Rovigo, chiamato da Emma Marcegaglia a rappresentare "il territorio più dinamico del Paese", industriale del settore molitorio (settore molto energivoro), è colui che ha macinato i nuovi piani energetici basati sulla devoluzione e la privatizzazione, realizzati grazie all'asse Lombardo-Fitto-Calderoli. Nelle intenzioni della Confindustria - ha detto - la devolution energetica "deve avere l'effetto di un elettroshock". Le note riservate di viale dell'Astronomia parlano chiaro. "Primo: al Nord si applicherà il prezzo più basso. Secondo: al Sud e nelle Isole l'energia costerà molto di più. Terzo: a quel punto l'esplosione dei prezzi al Sud non passerà inosservata e chi vende energia nelle zone congestionate difficilmente potrà praticare prezzi il 60-70 per cento più alti che nel resto d'Italia" senza la protezione di quello che la Confindustria chiama "lo schermo mimetico" garantito dal prezzo unico nazionale. Estrema conseguenza: "Gli utenti, toccati nel portafoglio dal costo dei no, faranno pressione sulle regioni perché si dia corso alla posa dei cavi che la Terna ha pronti da anni". E non si tratta di cavi destinati ad ammodernare la rete energetica, né di puntare sull'energia pulita e rinnovabile, bensì di costringere gli enti locali ad accettare nuove, obsolete ed inquinanti centrali termoelettriche, inceneritori, rigassificatori, e perché no centrali nucleari per favorire il saccheggio del territorio da parte dei costruttori e delle holding nordiste ed internazionali dell'energia che lucrano ormai da ben 18 anni sui famigerati e truffaldini incentivi statali "Cip6" e consimili.

Fonte varie e miei pensieri incazzosi
Luigi Ferrara

Civitella, Civitas Fidelissima

Civitella del Tronto è un comune del teramano (Abruzzo Ulteriore I) che sorge a 589 metri sul livello del mare su di una rupe di travertino ed è sovrastato da una imponente fortezza, simbolo della cittadina e della sua storia.

La Fortezza
La Fortezza di Civitella è una delle più rilevanti opere di ingegneria militare della penisola: si estende sulla sommità di una cresta rocciosa per una lunghezza di 500 metri circa; una larghezza media di 45 metri e con una superficie complessiva di 25.000 m2.

Il primo nucleo del forte, probabilmente un castello, risale all'anno mille, ma la struttura militare iniziò a delinearsi in epoca sveva e poi angioina (XIII secolo), assumendo vieppiù rilevanza strategica data la vicinanza al confine con il nascente Stato Pontificio. In epoca aragonese e spagnola, la fortezza subì modifiche ed ampliamenti sino ad raggiungere l'attuale conformazione.

Gli assedi
Nel 1557, durante la Guerra del Tronto, fu posta d'assedio dai francesi alleati con Papa Paolo IV. L'assedio, feroce e violento, non riuscì a far capitolare la fortezza, anche grazie alla valorosa resistenza che il popolo della cittadella riuscì a mettere in atto. L'eroismo dei civitellesi fu ricambiato da Napoli con l'esenzione dagli oneri fiscali per quarant'anni e con il restauro, a spese del demanio regio, degli edifici e della fortezza. Inoltre, nel 1589, Filippo II di Spagna, sempre per lo stesso episodio, elevò Civitella al rango di Città e le conferì il titolo di Fidelissima.

Nel 1798 e nel 1806, la Fortezza venne nuovamente assediata dalle truppe Francesi. Nel 1806, la difesa dalla cittadella era affidata al maggiore irlandese Matteo Wade, che riuscì, eroicamente, a resistere contro le ben più numerose truppe Napoleoniche, capitolando, onorevolmente, solo dopo quattro mesi d’assedio. Gli assedi del 1798 e 1806 danneggiarono non poco le strutture, al punto che nel 1820 la Fortezza fu completamente restaurata mantenendo però il suo carattere rinascimentale.

Nel 1861, Civitella fu protagonista dell’ultima battaglia per la difesa dell’indipendenza delle Due Sicilie. Dopo aver attraversato i territori pontifici e parallelamente alla Battaglia del Garigliano ed all'Assedio di Gaeta, l'esercito piemontese, nell'ottobre del 1860, strinse d'assedio Civitella.

L'eroica resistenza
La resistenza civitellese fu tenace e stava dando i suoi frutti, tanto che, il 6 dicembre 1860, dopo diversi insuccessi da parte sabauda, gli assedianti furono costretti a ripiegare, ritirandosi dalle montagne circostanti il paese. Gli attacchi ripresero solo dopo che le fila piemontesi furono ingrossate da diverse compagnie militari giunte a sostegno e da una consistente sezione di artiglieria, grazie alla quale lo scontro riprese ancor più duramente. Nonostante ciò la fortezza non si arrese. Il 6 gennaio 1861, però, le truppe sabaude vennero totalmente sostituite e furono emessi alcuni durissimi bandi contro i civili. La situazione fattasi estremamente critica fu causa di tensioni tra i soldati borbonici: vi erano elementi intenzionati ad arrendersi ed elementi intenzionati a continuare la difesa del forte: sebbene alcuni reparti si arresero abbandonando la fortezza, a prevalere fu la volontà di chi voleva resistere, e la tenacia di questi soldati fu seconda solo a quella degli abitanti di Civitella: i civitellesi, infatti, si schierarono eroicamente a difesa della loro città.

Il 15 febbraio un violentissimo bombardamento provocò gravi danni e perdite tra i civili, ma la fortezza non diede cenno di resa. Dopo la caduta delle piazzeforti di Gaeta e Messina, però, l'offensiva sabauda poté concentrarsi su Civitella. Il 17 marzo 1861, a Torino, veniva proclamato il Regno d'Italia, ma Civitella continuava a resistere, continuava ad essere l'ultimo lembo di terra delle Due Sicilie ancora indipendente. Questo era intollerabile per Casa Savoia: così l'esercito del nuovo Regno d'Italia rafforzò l'offensiva riducendo allo stremo civitellesi e soldati. Nonostante ciò, anche quando giunse il messaggio di Francesco II che comunicava la resa ed ordinava di deporre le armi, gli assediati non vi cedettero e rifiutarono di consegnarsi al nemico.

L'epilogo
Seguirono due giorni di terrificanti bombardamenti. Fu una battaglia terribile in cui l'esercito italiano bombardò la fortezza per spegnere la resistenza degli ultimi reparti di soldati meridionali. Alle ore 11 del 20 marzo 1861, gli assediati giunti allo stremo delle forze si arresero. Dopo la firma della capitolazione, i vincitori presero possesso del forte issando il vessillo sabaudo. L’ultimo fiero ed eroico baluardo delle Due Sicilie resistette strenuamente fino all'ultimo e si arrese ai piemontesi solo quando la ragione prevalse sulla passione, solo quando consapevoli che l’epilogo sarebbe stato una carneficina, si volle evitare di spargere altro sangue.

Il 21 marzo 1861, Cavour comunicava alle corti inglese e francese la caduta di Civitella: anche l'ultimo ostacolo alla legittimazione del nuovo stato italiano era stato eliminato. Il 22 marzo, dal ministero della guerra di Torino, giungeva lo scellerato ordine di distruggere la fortezza e la plurisecolare cinta muraria angioina della città. In questo modo barbarico si faceva pagare la fedeltà dei civitellesi al vessillo duosiciliano e ed il coraggio della valorosa guarnigione, colpevole di aver fatto esclusivamente il proprio dovere. Molti dei reduci furono deportati nei "campi" piemontesi di Savona e Fenestrelle, da dove non fecero più ritorno.

Da quarantuno anni, ad ogni anniversario di quel giorno infausto, donne e uomini orgogliosi dell'eroismo dei propri avi commemorano i caduti di Civitella e rendono omaggio alla memoria di chi ha combattuto per la libertà della propria terra.

AnTuDo

mercoledì 25 aprile 2012

Chi sono i VERI MAFIOSI?

-Io non so se la Lega Nord è un partito mafioso.
Io so che i rappresentanti della Lega Nord non vogliono i maestri meridionali nelle scuole italiane della “Padania”.
E questo è un comportamento mafioso.

-Io non so se la Lega Nord è un partito mafioso.
Io so che i rappresentanti della Lega Nord vogliono imporre il federalismo senza degnarsi di chiedere il consenso alle altre Regioni Italiane.
E questo è un comportamento mafioso.

-Io non so se la Lega Nord è un partito mafioso.
Io so che i loro dirigenti ostentano il dito medio contro gli avversari politici.
E questo è un comportamento mafioso.

-Io non so se la Lega Nord è un partito mafioso.
Io so i parlamentari della Lega Nord odiano e disprezzano gli italiani e si fanno pagare dagli italiani.
E questo è un comportamento mafioso.

-Io non so se la Lega Nord è un partito mafioso.
Io so che i rappresentanti della lega nord avvertono gli italiani che se non si obbedisce ai loro diktat useranno le pallottole di piombo.
E questo è un comportamento mafioso


-Io non so se la Lega Nord è un partito mafioso.
Io so che i politici della Lega Nord dichiarano che il Tricolore serve solo per soddisfare i loro bisogni corporali.
E questo è un comportamento mafioso.

-Io non so se la Lega Nord è un partito mafioso.
Io so che dove ci sono i militanti della Lega Nord è vietato sventolare il Tricolore.
E questo è un comportamento mafioso.

-Io non so se la Lega Nord è un partito mafioso.
Io so che i rappresentanti della Lega Nord ostentano il cappio nelle aule del Parlamento Italiano.
E questo è un comportamento mafioso.


-Io non so se la Lega Nord è un partito mafioso.
Io so che i giovani leghisti nei loro raduni cantano un inno intitolato “Ho un sogno nel cuore: bruciare il Tricolore".
E questo è un comportamento mafioso.

-Io non so se la Lega Nord è un partito mafioso.
Io so che tutte le volte che i programmi separatisti della Lega Nord sono contestati, i loro dirigenti minacciano sommosse e manifestazioni armate.
E questo è un comportamento mafioso.

-Io non so se la Lega Nord è un partito mafioso.
Io so che i figli dei dirigenti della Lega Nord fanno rapide e ben remunerate carriere da 10.000 Euro al mese nelle istituzioni dello Stato sol perchè sono figli di “uomini d’onore”.
E questo è un comportamento mafioso.

-Io non so se la Lega Nord è un partito mafioso.
Io so che in Calabria ci sono migliaia di giovani ricercatori disoccupati o precari da 700 Euro al Mese perchè i loro genitori non sono dirigenti politici.
E questo è un comportamento mafioso


-Io non so se la Lega Nord è un partito mafioso.
Io so che nel Parlamento Italiano ci sono tre ministri che militano in un partito nel cui statuto è contemplata la scissione dall’Italia.
E questo è un comportamento mafioso.

-Io non so se la Lega Nord è un partito mafioso.
Io so che pensa solo agli affari suoi.
E questo è un comportamento mafioso.

-Io non so se la lega Nord è un partito mafioso.
Io so che 1948, ancora bambino, dalla Calabria emigrai a Torino dove sulle porte delle case sfitte si poteva leggere:“Non si affitta a Meridionali”.
E questo è un comportamento mafioso.

-Io non so se la Lega Nord è un partito mafioso.
Io so che lo Stato ha abbandonato Napoli nelle mani della camorra.

-Io non so se la Lega Nord è un partito mafioso.
Io so che il Consiglio di Stato, contro la volontà delle Istituzioni e del popolo molisano, vuole obbligare la minuscola e ancora incontaminata Regione Molise ad installare migliaia di pale eoliche, alcune delle quali finanche sui siti archeologici di Sepino e di Pietrabbondante.
E questo è un comportamento mafioso.

-Io non so se la Lega Nord è un partito mafioso.
Io so che i profitti di quelle costruzioni finiranno nelle tasche dei capitalisti padani.
E questo è un comportamento mafioso.


-Io non so se la Lega Nord è un partito mafioso.
Io so che i “bravi” e i don Rodrigo erano a Milano e taglieggiavano la povera gente.
E questo è un comportamento mafioso

-Io non so se la Lega Nord è un partito mafioso.
Io so che negli ultimi 150 anni lo Stato ha costretto 15 milioni di terroni ad emigrare all’estero o, peggio, a Torino.
E questo è un comportamento mafioso.

-Io non so se la Lega Nord è un partito mafioso.
Io so che nel 1860, prima che l’esercito piemontese ci invadesse, il Regno di Napoli era tre volte più ricco del Regno di Sardegna e che i funzionari piemontesi depredarono il tesoro del Banco di Napoli per portarlo a Torino.
E questo è un comportamento mafioso.

-Io non so se la Lega Nord è un partito mafioso.
Io so che il Mezzogiorno è una gigantesca discarica di rifiuti tossici prodotti nelle industrie del Nord.
E questo è un comportamento mafioso.

-Io non so se la Lega Nord è un partito mafioso.
Io so che vuole disfarsi del Mezzogiorno perchè ormai è un limone spremuto.
E questo è un comportamento mafioso.

-Io non so se la Lega Nord è un partito mafioso.
Io so che Pompei è abbandonata a se stessa perchè non è funzionale agli interessi della borghesia capitalistica padana.
E questo è un comportamento mafioso.

-Io non so se la Lega Nord è un partito mafioso.
Io so che i leghisti accolgono la squadra del Napoli con le insegne: “Colera, Colera”.

-Io non so se la Lega Nord è un partito mafioso.
Io so che prima che i loro trisavoli ci invadessero, Napoli era, con Londra e Pietroburgo, la capitale europea della cultura e della civiltà. La distrussero, ne fecero una loro colonia.
E questo è un comportamento mafioso.

-Io non so se la Lega Nord è un partito mafioso.
Io so che i padani pretendono di imporre il federalismo o il centralismo a loro insindacabile discrezionalità.
E questo è un comportando mafioso

-Io non so se la Lega Nord è un partito mafioso.
Io so che Vittorio Emanuele II nel 1860 pretese di fare l’unità d’Italia  senza chiedere il parere degli altri Stati della penisola e tanto meno quello del Regno delle Due Sicilie.
Lo invasero senza neanche degnarsi (e anche in maniera codarda ndr) di inviare una dichiarazione di guerra.
E questo è un comportamento mafioso

Io non so se la Lega Nord è un partito mafioso.
Io so che per fare l’unità d’Italia hanno inviato un esercito di occupazione di 120.000 uomini che per ben dieci anni ha devastato, saccheggiato, violentato e depredato > tutto ciò che di meglio c’era nell’allora florido e appetibile Regno di Napoli.
E questo è un comportamento mafioso

-Io non so se la Lega Nord è un partito mafioso.
Io so che quella guerra di occupazione ha prodotto un milione di morti (stimati da civiltà cattolica ndr),50 mila oppositori che chiamarono briganti deportati nel carcere lager di Fenestrelle dove morirono torturati, di fame, di freddo, di stenti, murati vivi e sciolti nella calce, come da ormai inoppugnabili documentazioni storiche.
E questo è un comportamento mafioso.

-Io non so se la Lega Nord è un partito mafioso.
Io so che Gaeta fu distrutta dal generale Cialdini che chiamava noi meridionali “beduini africani”.
E questo è un comportamento mafioso


-Io non so se la Lega Nord è un partito mafioso.
Io so che Nino Bixio a Bronte fece un massacro di cittadini inermi.
E questo è un comportamento mafioso.


-Io non so se la Lega Nord è un partito mafioso.
Io so che Gaeta, Pontelandolfo, Casalduni e centinaia di altri villaggi furono rasi al suolo, incendiati; le donne stuprate.
E questo è un comportamento mafioso.

-Io non so se la Lega Nord è un partito mafioso.
Io so che quella che chiamarono unità d’Italia fu la fine di 2500 anni di civiltà.
Al Sud non lasciarono neanche gli occhi per piangere.

-Io non so se la Lega Nord è un partito mafioso.
Io so che i loro dirigenti devono smetterla di insultare ed offendere i meridionali perchè, come diceva Totò, “ogni limite ha una pazienza” e perchè se scoppia la polveriera meridionale non si salverà nessuno, e tanto meno la Padania.
E devono chiedere perdono ai milioni di terroni morti negli ultimi 150 anni sui fronti di guerre colonialistiche e imperialistiche scatenate dalla borghesia capitalistica del Nord.
Altrimenti il loro è un comportamento mafioso.

Antonio Grano
postato da Bernardi Pino

E adesso se avete avuto la pazienza di leggere tutto mi spiegate dove sta la MAFIA?

Io non sapevo.



Io non sapevo che i piemontesi fecero del Sud quello che i nazisti fecero a Marzabotto. Ma tante volte, per anni. E cancellarono per sempre molti paesi, in operazioni “anti-terrorismo”, come i marines in Iraq. Non sapevo che nelle rappresaglie si concedessero libertà di stupro sulle donne meridionali, come nei Balcani durante il conflitto etnico; o come i marocchini delle truppe francesi, in Ciociaria, nell’invasione, da Sud, per redimere l’Italia dal fascismo (ogni volta che viene liberato il Mezzogiorno ci rimette qualcosa). Ignoravo che, in nome dell’Unità nazionale, i fratelli d’Italia ebbero pure diritto di saccheggio delle città meridionali, come i Lanzichenecchi a Roma. E che praticarono la tortura, come i marines ad Abu Ghraib, i francesi in Algeria, Pinochet in Cile. Non sapevo che in Parlamento, a Torino, un deputato ex garibaldino paragonò la ferocia e le stragi piemontesi al Sud a quelle di “Tamerlano, Gengis Khan e Attila”. Un altro preferì tacere “rivelazioni di cui l’Europa potrebbe inorridire”. E Garibaldi parlò di “cose da cloaca”. Né che si incarcerarono i meridionali senza accusa, senza processo e senza condanna, come è accaduto con gl’islamici a Guantànamo. Lì qualche centinaio, terroristi per definizione, perché musulmani; da noi centinaia di migliaia, briganti per definizione, perché meridionali. E, se bambini, briganti precoci; se donne, brigantesse o mogli, figlie, di briganti; o consanguinei di briganti (sino al terzo grado di parentela); o persino solo paesani o sospetti tali. Tutto a norma di legge, si capisce, come in Sudafrica, con l’apartheid.Io credevo che i briganti fossero proprio briganti, non anche ex soldati borbonici e patrioti alla guerriglia per difendere il proprio paese invaso. Non sapevo che il paesaggio del Sud divenne come quello del Kosovo, con fucilazioni in massa, fosse comuni, paesi che bruciavano sulle colline e colonne di decine di migliaia di profughi in marcia. Non volevo credere che i primi campi di concentramento e sterminio in Europa li istituirono gli italiani del Nord, per tormentare e farvi morire gli italiani del Sud, a migliaia, forse decine di migliaia (non si sa, perché li squagliavano nella calce), come nell’Unione Sovietica di Stalin. Ignoravo che il ministero degli Esteri dell’Italia unita cercò per anni “una landa desolata” fra Patagonia, Borneo e altri sperduti lidi, per deportarvi i meridionali e annientarli lontano da occhi indiscreti. Né sapevo che i fratelli d’Italia arrivati dal Nord svuotarono le ricche banche meridionali, regge, musei, case private (rubando persino le posate), per pagare i debiti del Piemonte e costituire immensi patrimoni privati. Non sapevo che, a Italia così unificata, imposero una tassa aggiuntiva ai meridionali, per pagare le spese della guerra di conquista del Sud, fatta senza nemmeno dichiararla. Né sapevo che il regno delle Due Sicilie fosse, fino al momento dell’aggressione, uno dei paesi più industrializzati del mondo (terzo, dopo Inghilterra e Francia, prima di essere invaso). Non potevo immaginare che l’Italia unita facesse pagare più tasse a chi stentava e moriva di malaria nelle caverne dei sassi di Matera, rispetto ai proprietari delle ville sul lago di Como. (da Terroni di P. Aprile)

domenica 22 aprile 2012

COME TI FINANZIO IL NORD di Gennaro Zona

Più volte, generalizzando, si è detto che la colpa più grande del fallimento delle politiche per lo sviluppo del Mezzogiorno sia da attribuire alle popolazioni meridionali, che hanno aggiunto al loro scarso spirito di iniziativa una gestione clientelare e poco chiara degli incentivi. Lo scopo di questo studio non è quello di portare una difesa delle popolazioni meridionali, ma di cercare di chiarire che del problema meridionale si è fatta carico l'intera comunità nazionale, con una gestione centralistica delle politiche e delle risorse per il Mezzogiorno.
Quindi non è stato solo un "fatto meridionale", nè una sorta di "beneficenza" delle regioni più ricche verso quelle più povere.
Piuttosto, quello che le popolazioni meridionali, sbagliando, hanno sempre interpretato come un patto nazionale di tipo "solidaristico", si rivela oggi per ciò che realmente è stato e continua ad essere: un patto tra "poteri forti" della nazione.
Molti accreditati studiosi sembra facciano a gara, in questi ultimi anni, a dimostrare, dati alla mano, quanto siano stati ingenti i trasferimenti di risorse finanziarie dalle regioni settentrionali a quelle meridionali, a tutto danno delle prime.
Allora è il caso di chiarire l'equivoco di fondo che, intromessosi sin dall'inizio del dibattito, rischia, a nostro giudizio, di falsare completamente il reale svolgimento dei fatti: non è mai esistito alcun trasferimento diretto di fondi dal Nord al Sud, ma politiche di redistribuzione della ricchezza nazionale.
L'enfasi posta sullo Stato come semplice "dislocatore" di risorse dalle regioni settentrionali a quelle meridionali contribuisce solo ad occultare le gravissime responsabilità che sia lo Stato centrale sia il Nord hanno nel mancato sviluppo economico di una parte del Paese.
Quella che avrebbe dovuto essere una politica correttrice degli squilibri territoriali è servita alla strutturazione di un mercato protetto per le imprese del Nord.
Nelle regioni meridionali le varie forme in cui si è realizzata la politica di intervento straordinario sono, da sempre, associate ad una rapida crescita dei consumi e ad un forte aumentodel flusso delle importazioni dal Nord.
Si è, insomma, sostituita ala politica regionale quella che possiamo definire come un'anomala politica "protezionistica", che richiama alla memoria logiche economiche dei paesi coloniali dello scorso secolo.
All'origine di questa strategia "assistenziale-domandista" c'è sicuramente l'alleanza tra classe politica meridionale e grande impresa del Nord.

Solo unendo tutti i nostri popoli, dall'Abruzzo alla Sicilia, possiamo sconfiggerli! Altrimenti ci aspettano altri 150 anni di colonialismo!

Salernitani contro Napoletani, Baresi contro Leccesi, Potentini contro Materani, Catanzaresi contro Reggini, Catanesi contro Palermitani.
Qui non c'entra solo la disputa calcistica, qui si tenta di dividerci ancor di più e non ci rendiamo conto che in questo modo facciamo il loro gioco, il gioco di chi non ci vuole popolo.
Dopo le ultime sparate del referendum secessionistico della provincia di Salerno, dopo le ultime sparate dei siciliani contro i continentali e viceversa si sta andando verso un baratro profondo!
Da anni la missione di tutti noi, che sappiamo quello che ci hanno fatto,  è quella di svegliare chi ancora al Sud sta dormendo, ma gridando che il nostro orticello è migliore di quello del vicino è a dir poco straziante!
Il Regno delle Due Sicile aveva già una forma federalista quasi perfetta sancita dalla costituzione del 1822 in cui l'ente più importante non era la regione o la provincia ma bensì, dopo lo Stato, era il COMUNE!
Infatti i municipi avevano una grande autonomia e la applicavano nei loro territori di competenza, forse questo è uno dei motivi che nei nostri paesi anche a pochi chilometri di distanza ci sono usi e costumi e leggi differenti.
Quindi se non riusciamo ad unirci cerchiamo alemeno di prendere esempio dai nostri avi che avevano questa forma di autonomia che assecondava tutti i dissapori.
Il nostro obbiettivo primario è spezzare le catene del colonialismo Tosco-Padano, al secondo posto ci sarà una forma di federalismo netto (e non quello pseudo leghista).
Quindi tutti insieme iniziamo la nostra "guerra" di rinascita e travolgiamo tutto.
Gridiamo insieme:

W NAPOLI, W SALERNO,W AVELLINO, W BENEVENTO,W CASERTA,  W L'AQUILA, W PESCARA, W CHIETI, W RIETI, W TERAMO, W CAPOBASSO, W ISERNIA, W POTENZA, W MATERA, W FOGGIA, W BARI, W ANDRIA, W TARANTO, W BRINDISI, W LECCE, W COSENZA, W CATANZARO, W CROTONE, W VIBO, W REGGIO, W CATANIA, W MESSINA, W RAGUSA, W SIRACUSA, W TRAPANI, W CALTANISSETTA, W AGRIGENTO, W PALERMO, W ENNA

ma soprattutto

W IL SUD IL NOSTRO SUD!!!!!!!!!!

venerdì 20 aprile 2012

Vito Cerullo: Il sud ha un'altra storia. Diffonderla sarà un trampolino di lancio per i nostri giovani.

Carissimi Sindaci, associazioni e cittadini del Sud Italia,


Ricevete questa mia sia perché siete amministratori di un territorio straordinario, cittadini e persone che amano le proprie tradizioni, la propria cultura e la propria terra e sia perché sono sicurissimo che anche voi soffriate del fatto che gli stessi luoghi e le stesse persone stanno scomparendo.

Luoghi stupendi svuotati e privati delle loro anime e delle menti migliori. Perdiamo pezzi perchè c'è troppa rassegnazione. Fin da giovani siamo stati abituati all'idea che al sud siamo "meno" in tutto, si tira a campare, da sempre convinti che in altra terra “saremo uomini migliori”. Invertiamo la rotta.

Non ho una vera richiesta, e nemmeno pretese, scrivo per l'attaccamento che provo per la mia terra e per la voglia di riscatto che matura in molti emigranti. Io sono un emigrante.

Sono convinto che la politica possa fare qualcosa. Si può partire dal basso, dai comuni ad esempio, dalla nostra cultura, dalla scuola, dai nostri giovani e dalla nostra vera storia. Conoscere la nostra storia non cambierà le cose, ma animerà i nostri paesi di persone diverse, nuova linfa per una nuova classe dirigente, più ottimismo, forza e voglia di cambiare.

Da 150 anni ci raccontano la barzelletta del sud liberato dai Savoia, l'Unità d'Italia, Garibaldi e Mazzini. Ma la realtà è un'altra. Un paese occupato da un secolo e mezzo, spogliato delle sue attività produttive e dei suoi primati, la distruzioni di interi paesi con le armi prima e con l'emigrazione dopo, e poi la storia, quella scritta dai vincitori, ha voluto dimostrare una inferiorità che prima dell'unità d'Italia non esisteva . E nessuno sembra saperlo. Briganti e non partigiani, a coloro che si ribellarono alle barbarie e alle bugie del tiranno Piemontese. Io sono un Brigante

Hanno cancellato la memoria di un intero popolo, rendendolo incapace di avere coscienza delle proprie origini e di comprendere il perchè degli attuali disagi. Ed è per questo motivo che sto cercando di diffondere, per quanto posso, la nostra vera storia qui a Reggio Emilia, di far assimilare queste scomode verità "mai lette, mai udite ma da tempo scritte e oscurate" alle migliaia di meridionali emigrati in questa mia nuova città. Dati di fatto fin ora mai smentiti che riguardano la nostra storia prima dell'unità. Vedo la tristezza, l'amarezza e la rabbia negli occhi e sui volti di chi legge per la prima volta. Ma c'è l'ottimismo che prevale, un senso di appartenenza che prima si ripudiava.

Pregiudizi e ignoranza. Ancora oggi nel 2010, per strada, nel bar o in un consiglio comunale c'è qualcuno che può dire "sei un terrone" quindi mediocre, rozzo e inutile. Adesso, con dati alla mano, non più. Non riescono a smentirmi. Le menti del nord sopraffatte da un "terrone" informato. INFORMARE, . E' una delle soluzioni per cominciare a costruire qualcosa di nuovo nei nostri paesi. Conoscere la storia e le mie origini è stato tutto per me.

Poter sapere che eravamo un popolo virtuoso, poter credere che sarebbe stata diversa la nostra sorte, avere delle basi solide sulle quali poter ricostruire un futuro pensando al passato, far crescere i nostri figli con la convinzione che al sud "c'è molto da fare", che il nostro destino è rendere migliore la nostra terra, questo dovrebbe essere un obbiettivo di tutti, anche della politica.

Il succo del discorso. Riuscire a partire dalle giovani generazioni riempiendo il voto che la scuola, la società e i media oggi come ieri stanno creando nei giovani meridionali. Credo che diffondere la nostra vera storia nei nostri comuni potrebbe essere la chiave per creare una generazione migliore, ottimista ed attaccata alle proprio origine per mai più rinnegarle.

Associazioni, pro-loco e cittadini, informatevi e diffondete con spettacoli, testi, articoli. Politici, finanziate e sostenete la nostra storia e la nostra "nuova" cultura.

Scusate se vi ho fatto perdere tempo.

Vi auguro un buon lavoro

Un saluto

Vito Cerullo
Un vostro compaesano

La legge ammazza-terroni

Legge Pica
All'indomani dell'annessione delle Due Sicilie al nascente regno d'Italia, all'indomani dei plebisciti-farsa organizzati per dare una parvenza di legittimità alla conquista militare, all'indomani dell'inizio della fine, i popoli duosiciliani manifestarono il proprio dissenso verso il nuovo stato unitario e, quando il ruolo di colonia, che l'Italia voleva assegnare al "meridione liberato" divenne un prezzo troppo alto da pagare, uomini e donne impavidi imbracciarono le armi per difendere la propria terra dall'invasione "straniera", dando vita a quel movimento di resistenza che i conquistatori combatterono definendolo, con l'intento di svilirlo agli occhi dell'opinione pubblica, "Brigantaggio".

Il più noto provvedimento legislativo che lo stato italiano adottò per reprimere i fenomeni di resistenza fu la legge Pica del 15 agosto 1863. Presentata come "mezzo eccezionale e temporaneo di difesa" (difesa da chi? Dai cittadini che non riconoscono la legittimità dell’invasore occupante?), la legge fu, invece, più volte prorogata ed integrata da successive modificazioni e decreti attuativi, rimanendo in vigore fino a tutto il 1865.

Paradossalmente, il proponente di questo provvedimento fu proprio un "meridionale": il deputato abruzzese Giuseppe Pica, che, così come fecero tanti altri "meridionali", si asservì all'invasore per continuare ad occupare un seggio in parlamento.

Proclamazione dello stato d'assedio
La legge Pica seguiva, di circa dodici mesi, la proclamazione, da parte del governo, dello stato d'assedio nelle province meridionali, avvenuta nell'estate del 1862. In pretica, lo stato italiano, per mantenerne il controllo, occupava militarmente i territori delle Due Sicilie, che altrimenti sarebbero sicuramente tornati ad essere uno stato indipendente.

Con lo stato d'assedio si era voluto concentrare il potere nelle mani dell'autorità militare al fine di reprimere l'attività di resistenza armata: coloro i quali venivano catturati con l'accusa di brigantaggio, fossero essi sospettati di essere ribelli o parenti di ribelli, potevano essere passati per le armi dall'esercito, senza formalità di alcun genere. Esercito e bersaglieri avevano licenza di ammazzare chiunque non gli andasse a genio! Per contro, coloro che riuscivano ad evitare il plotone di esecuzione non potevano più essere processati dai tribunali militari e divenivano soggetti alla giustizia ordinaria, che, in base alle variazioni apportate, nel 1859, al codice penale piemontese, non prevedeva più l'applicazione della pena di morte per i reati politici. La legge Pica, dunque, sospendendo, in sostanza, la garanzia dei diritti costituzionali contemplati dallo statuto Albertino, aveva l'obiettivo di colmare questo "vuoto", sottraendo i sospettati di brigantaggio ai tribunali civili in favore di quelli militari. Il parlamento italiano approvò la legge con la convinzione che attraverso di essa nessun partigiano duosiciliano sarebbe sfuggito all morte o, quanto meno, al carcere.

Le province infette
In applicazione della legge Pica, con Regio decreto del 20 agosto 1863, venivano individuate le province definite come "infestate dal brigantaggio", che erano: Abruzzo Citeriore (odierna provincia di Chieti e parte della provincia di Pescara) , Abruzzo Ulteriore II (odierna provincia dell’Aquila e parte della provincia di Rieti), Basilicata, provincia di Benevento, Calabria Citeriore (odierna provincia di Cosenza), Calabria Ulteriore II (province di Crotone, Catanzaro e Vibo), Capitanata (provincia di Foggia), Molise, Principato Citeriore (provincia di Salerno), Principato Ulteriore (provincia di Avellino) e Terra di Lavoro (odierna provincia di Caserta e area meridionale delle province di Frosinone e Latina). Non ebbero l'onore di essere incluse in questa lista: l'Abruzzo Ulteriore I (odierna provincia di Teramo e parte della provincia di Pescara), la provincia di Napoli (dove il controllo sulla popolazione era assicurato dalla nascente camorra foraggiata dallo stato), Calabria Ulteriore I (odierna provincia di Reggio - anche qui valeva un discorso simile a quello fatto per Napoli) e, solo inizialmente, le sette province siciliane (poichè non interessate dalle insorgenze di carattere legittimista, ma che ben presto verranno ugualmente interessate dal provvedimento).

Per legge, dunque, il nuovo stato fu scpaccato in due: il centro-nord, dove vigeva lo Statuto albertino, e le Due Sicilie, dove i diritti costituzionali dei cittadini erano "momentaneamente sospesi". La legge fu, infatti, adottata in deroga agli articoli 24 e 71 dello Statuto: tali articoli garantivano, rispettivamente, il principio di uguaglianza di tutti i sudditi dinanzi alla legge e la garanzia del giudice naturale connessa al divieto di costituire tribunali speciali.

Sottomissione e sterminio
Con la legge Pica, venivano istituiti sul territorio i tribunali militari, ai quali passava la competenza in materia di reati di brigantaggio. Il nuovo corpo normativo stabiliva che poteva essere qualificato come brigante (e, dunque, giudicato dalla corte marziale) chiunque fosse stato trovato armato in un gruppo di almeno tre persone. Veniva concessa la facoltà di istituire delle milizie volontarie per la caccia ai briganti ed erano stabiliti dei premi in danaro per ogni brigante arrestato o ucciso. Ne conseguì che pastori e contadini, che spesso si muovevano portando indosso strumenti di difesa come pugnali o coltelli a serramanico, divennero d'un sol colpo criminali passibili delle severe condanne previste dal complesso normativo connesso alla legge Pica.

Le pene comminate ai condannati andavano dall'incarcerazione, ai lavori forzati, alla fucilazione. Veniva punito con la fucilazione chiunque avesse opposto resistenza armata all'arresto, mentre coloro che non si opponevano all'arresto potevano essere puniti con i lavori forzati a vita o con i lavori forzati a tempo, salvo, però, maggiori pene, applicabili nel caso in cui costoro fossero stati riconosciuti colpevoli di altri reati. Coloro che prestavano aiuti e sostegno di qualsiasi genere ai briganti potevano essere, invece, puniti con i lavori forzati a tempo o con l'incarcerazione. Veniva punito con la deportazione chiunque si fosse unito, anche momentaneamente, ai gruppi qualificati come bande brigantesche. Erano, invece, previste delle attenuanti per coloro i quali si fossero presentati spontaneamente alle autorità. Veniva, infine, introdotto anche il reato di eccitamento al brigantaggio.

Nelle province che lo stato definì "infette", venivano istituiti i Consigli inquisitori (i cui componenti erano il Prefetto, il Presidente del Tribunale, il Procuratore del Re e due cittadini della Deputazione Provinciale) che avevano il compito di stendere delle liste con i nominativi dei briganti individuando così i sospetti che potevano essere messi in stato d'arresto o, in caso di resistenza, uccisi: l'iscrizione nella lista, infatti, costituiva di per sé prova d'accusa. In sostanza, veniva introdotto il criterio del sospetto: in base al quale divenne possibile per i "liberali" avanzare accuse senza fondamento, per consumare vendette private, per liberarsi degli oppositori politici, per accrescere i prorpi profitti... per ammazzare il "terrone scomodo"!

La legge, per di più, aveva effetto retroattivo: in altre parole, era possibile applicare la legge Pica anche per reati contestati in epoca antecedente la promulgazione della legge stessa.

La Sicilia
Attraverso le successive modificazioni, la legge Pica fu estesa anche alla Sicilia, pur essendo assente sull'isola il grande brigantaggio legittimista che caratterizzava le province napoletane. In particolare, l'obiettivo del governo era combattere il fenomeno della renitenza alla leva militare: divennero, infatti, perseguibili i renitenti, i loro parenti e, persino, i loro concittadini (attraverso l'occupazione militare di città e paesi). Alla sospensione dei diritti costituzionali, dunque, si accompagnavano misure come la punizione collettiva per i reati dei singoli e il diritto di rappresaglia contro i villaggi: veniva introdotto il concetto di "responsabilità collettiva" (sic)! Venivano adoperati metodi da colonialismo!

Chi si oppose fu ignorato
Già durante la fase di discussione, fu subito chiaro che la nuova legge avrebbe dato adito ad errori ed arbitri di ogni sorta: il senatore Ubaldino Peruzzi, infatti, notò come il provvedimento fosse «la negazione di ogni libertà politica». Al pugno di ferro prospettato dalla Destra storica, il Senatore Luigi Federico Menabrea rispose, invece, con una proposta totalmente alternativa. Il Menabrea, come soluzione al malcontento popolare e alle insurrezioni che seguirono l'annessione delle Due Sicilie al Regno d'Italia, propose di stanziare 20 milioni di lire per la realizzazione di opere pubbliche al Sud. Il piano del Menabrea, però, non ebbe alcun seguito, poiché il parlamento italiano preferì il pugno di ferro, preferì investire nell'impiego delle forze armate, preferì sterminare chi ad esso si opponeva.

Nonostante la scelleratezza del provvedimento legislativo fosse stata apertamente denunciata, la legge fu ugualmente approvata, e immediatamente dagli stessi contemporanei furono riconosciuti gli abusi e le iniquità a cui essa diede adito. Nella seduta parlamentare del 29 aprile 1862, il senatore Giuseppe Ferrari affermava: «Non potete negare che intere famiglie vengono arrestate senza il minimo pretesto; che vi sono, in quelle province, degli uomini assolti dai giudici e che sono ancora in carcere. Si è introdotta una nuova legge in base alla quale ogni uomo preso con le armi in pugno viene fucilato. Questa si chiama guerra barbarica, guerra senza quartiere. Se la vostra coscienza non vi dice che state sguazzando nel sangue, non so più come esprimermi».

Allo stesso modo, nel 1864, Vincenzo Padula scriveva: «Il tempo che si dà la caccia ai briganti è una vera pasqua per gli ufficiali, civili e militari; e l'immoralità dei mezzi, [...], ha corrotto e imbruttito. Si arrestano le famiglie dei briganti, ed i più lontani congiunti; e le madri, le spose, le sorelle e le figlie loro, servono a saziare la libidine, ora di chi comanda, ora di chi esegue quegli arresti».

Esiti
La legge Pica non faceva alcuna distinzione tra comuni delinquenti, partigiani, contadini, collaborazionisti veri o presunti. Essa, fra fucilazioni, morti in combattimento ed arresti, eliminò da paesi e campagne circa 14.000 briganti o presunti briganti: per effetto della legge e del complesso normativo ad essa connesso, fino a tutto il dicembre 1865, si ebbero 12.000 tra arrestati e deportati, mentre furono 2.218 i condannati. Nel solo 1865, furono 55 le condanne a morte, 83 ai lavori forzati a vita, 576 quelle ai lavori forzati a tempo e 306 quelle alla reclusione ordinaria. Questi dati, desunti dai pochi documenti ufficiali sfuggiti agli archivi militari, lasciano presupporre una sottostima del reale numero delle vittime. In generale, la guerra civile eufemisticamente definita "lotta al Brigantaggio", impegnò un significativo "contingente di pacificazione": inizialmente esso constava di centoventimila unità, quasi la metà dell'allora esercito unitario, poi scese, negli anni successivi, prima, a novantamila uomini e, poi, a cinquantamila.

Nel 1865, la legge Pica fu abrogata: nonostante il suo rigore, le iniquità e le violenze, essa non riuscì a portare i risultati che il governo si era prefissi, non riuscì ad annichilire le insorgenze indipendentiste: i briganti, infatti, non furono piegati e le loro attività insurrezionali perdurarono negli anni successivi al 1865, protraendosi fino al 1870.

AnTuDo
ANimus TUus DOminus
Il coraggio è il tuo signore

Stati Uniti d'Italia

Nello sfascio generale politico ed economico è scomparso dall'agenda il 150esimo anniversario dell'Unità d'Italia del 2011. Nessuno ne parla più, sembra un evento dello scorso anno, una rivista vecchia dimenticata dal barbiere. La ricorrenza non è ancora stata celebrata, eppure sembra già trapassata. Può essere che le Istituzioni si vergognino e sperino che la nascita dello Stato unitario passi in silenzio, scivoli via dal calendario. Gli italiani del resto se pensano alle Istituzioni hanno un conato di vomito e una voglia irrefrenabile di emigrare. Vederle identificate con l'Italia è una provocazione, un'istigazione alla secessione.Il 2011 è invece un'opportunità, un'occasione unica per fare la Storia d'Italia, non quella del trio Cavour-Garibaldi-Vittorio Emanuele II con la ruota di scorta di Mazzini e dei plebisciti fasulli che legittimavano i Savoia, ma la Storia degli eccidi nel Sud, delle occupazioni nel Nord, dei cannoni dei regnanti contro i contadini inermi che protestavano per la legge sul macinato, delle emigrazioni forzate di milioni di veneti e di meridionali per le Americhe, unica possibilità rimasta per non morire di fame. Il 2011 può essere dedicato alla Storia dell'annessione dei popoli italici da parte dei Savoia, della predazione delle casse degli Stati occupati, dal Regno dei Borboni allo Stato Pontificio. Capitali necessari al Regno di Sardegna, notoriamente con le pezze al culo, per non dichiarare bancarotta, alle centinaia di migliaia di patrioti chiamati "briganti" fucilati da Cialdini con le loro teste mozzate fotografate ed esibite sui giornali dell'epoca. Persino l'Unione Sovietica ai tempi di Krusciov è riuscita a mettere in discussione le menzogne dello stalinismo, in Italia ci si culla ancora nell'idea del Risorgimento e del grido di dolore accolto da Vittorio Emanuele II. Le mafie sono un frutto dell'occupazione del Sud, prima erano un fenomeno fisiologico, con i Savoia sono diventate uno strumento di gestione del potere. Garibaldi disse "Qui si fa l'Italia o si muore", per fare veramente l'Italia bisogna ripartire dalle sue radici e quindi "Qui si disfa l'Italia o si muore".Le piazze d'Italia sono piene di lapidi celebrative delle tre guerre d'indipendenza, di quelle mondiali, alcune anche di quelle coloniali e di quella civile del 1945/46. Da 150 anni siamo in guerra, anche con noi stessi, per affermare un'identità che non abbiamo. Siamo come l'isola che non c'è di Peter Pan: "E a pensarci, che pazzia/è una favola, è solo fantasia/e chi è saggio, chi è maturo lo sa/ non può esistere nella realtà!", uno Stato che non c'è, visto come greppia o tenuto a distanza con diffidenza. Un'espressione geografica che ospita le tre più potenti organizzazioni criminali del pianeta, indifferente a quarant'anni di stragi in cui lo Stato era complice o assente, con centinaia di morti tra giudici, giornalisti, politici, amministratori pubblici. Un luogo che sta cadendo a pezzi in cui molte Regioni non vedono l'ora di un liberatorio "Sciogliete le fila" e ritornare ad essere Repubblica di Venezia con i suoi mille anni di Storia, la Repubblica di Genova, lo Stato delle Due Sicilie, Stato legittimo invaso con le armi, o annessi alla Francia da parte della Valle d'Aosta o all'Austria del Sud Tirolo. Non sono ipotesi, ma la cruda realtà. E' necessario rivedere il nostro passato e dimenticare il "glorioso" Risorgimento per rimanere insieme in una federazione di Stati, simili a quelli pre unitari, ognuno con la sua Storia e la sua autonomia.
Beppe Grillo (http://www.beppegrillo.it/2010/12/stati_uniti_ditalia/index.html)

Lentamente muore

Lentamente muore chi diventa schiavo dell'abitudine, ripetendo ogni giorno gli stessi percorsi, chi non cambia la marca, chi non rischia e cambia colore dei vestiti, chi non parla a chi non conosce.

Muore lentamente chi evita una passione, chi preferisce il nero su bianco e i puntini sulle "i" piuttosto che un insieme di emozioni, proprio quelle che fanno brillare gli occhi, quelle che fanno di uno sbadiglio un sorriso, quelle che fanno battere il cuore davanti all'errore e ai sentimenti.

Lentamente muore chi non capovolge il tavolo, chi è infelice sul lavoro, chi non rischia la certezza per l'incertezza, per inseguire un sogno, chi non si permette almeno una volta nella vita di fuggire ai consigli sensati. Lentamente muore chi non viaggia, chi non legge, chi non ascolta musica, chi non trova grazia in se stesso. Muore lentamente chi distrugge l'amor proprio, chi non si lascia aiutare; chi passa i giorni a lamentarsi della propria sfortuna o della pioggia incessante.

Lentamente muore chi abbandona un progetto prima di iniziarlo, chi non fa domande sugli argomenti che non conosce, chi non risponde quando gli chiedono qualcosa che conosce.

Evitiamo la morte a piccole dosi, ricordando sempre che essere vivo richiede uno sforzo di gran lunga maggiore del semplice fatto di respirare. Soltanto l'ardente pazienza porterà al raggiungimento di una splendida felicità.

(Martha Medeiros)

Il brigantaggio

Il brigantaggio nell'Italia meridionale dopo l'Unità d'Italia non è da considerare una semplice sollevazione contadina contro il potere politico e economico rappresentato dal padrone, ma è una realtà ben più complessa.

L'origine del fenomeno è da attribuirsi alla miseria e alle continue angherie che il povero popolo dei contadini doveva continuamente sopportare da parte dei soliti, pochi, ricchi padroni.

Non è facile comprendere il perché di un fenomeno tanto complesso. Storici e studiosi si sono, da sempre, cimentati nella comprensione del fenomeno, concordando sulla complessità e sulla varietà delle motivazioni.

Probabilmente un buon margine di colpa è da attribuire all'illusione che, con l'Unità d'Italia, molte cose sarebbero cambiate. Al contrario, la vita dei contadini andò sempre più peggiorando, soprattutto a causa della miope e cattiva politica sabauda che tratto il meridione al pari di una colonia, conquistata con mire espansionistiche. I piemontesi, purtroppo, non fecero altro che sostituire i Borboni nell'amministrazione del potere; in una situazione simile scontento e delusione fomentarono la ribellione che, senza molti scrupoli, fu trattata dai nuovi governanti con l'applicazione delle legge marziale.

Le rivolte finivano, spesso, nel sangue; i briganti o, anche, coloro che, sommariamente, venivano riconosciuti tali, venivano passati per le armi.

Fu, questo, il triste risultato di una cattiva valutazione di un fenomeno, difficile da comprendere per il nuovo potere politico che, beatamente, viveva nell'Italia settentrionale, lontano dalla nuova realtà che una guerra di conquista aveva portato in dote. Pertanto le continue richieste di pane e lavoro dei contadini meridionali si persero nella lentezza e nella negligenza dei rappresentanti politici.
Le fasi del brigantaggio

I primi vagiti del Brigantaggio cominciarono a farsi sentire sin dal 1861, quando gruppi formati da contadini, salariati ridotti alla fame, disertori ed evasi dalle carceri, si davano al brigantaggio nelle sue forme primitive fatte di furti, vendette e vandalismi; in questo periodo cominciano anche a nascere le prime bande con un capo che, di solito, si eleggeva in base alla sua abilità, alla sua autorevolezza ed alla sua capacità di essere spietato.

A combattere il brigantaggio fu principalmente l'esercito anche se, spesso, non era in grado di fronteggiare le mobilissime bande, che lo impegnavano in vere e proprie azioni di guerriglia.

Nel corso del 1864 l'esercito fu potenziato ed alcune grosse bande furono sconfitte. In seguito, e fino al 1870, vi furono ancora azioni brigantesche di particolare vivacità ma le difficoltà, per le bande, cominciavano a farsi sentire.

L'esercito divenne sempre più spietato, al pari degli stessi briganti. I piemontesi dedicarono molte risorse per sconfiggere il fenomeno. All'inizio del 1870 la violenta repressione cui tutto il meridione fu sottoposto, concluse il periodo del brigantaggio per il meridione d'Italia. Una vera e propria guerra civile era terminata ma rimanevano, comunque, irrisolti i grandi problemi del meridione d'Italia che hanno provocato la sua arretratezza nei confronti del resto dell'Italia.
Carmine Crocco
Monticchio il luoghi in cui si nascondeva il brigante Crocco

Carmine Crocco fu il più famoso brigante della storia. Nasce a Rionero in Vulture (Potenza) il 5 giugno del 1830. Ad appena 19 anni si arruola nell'esercito ma diserta nel 1852 dopo essere stato condannato per omicidio.

Costituisce insieme ad altri disertori e contadini una banda di Briganti nascondendosi nei boschi di Monticchio, ma fu catturato e condannato al carcere per 19 anni.

Per scontare la pena fu rinchiuso nel Carcere di Brindisi dove evase insieme ad altri carcerati nella notte del 13 dicembre del 1859

Tra il 1860 e il 1865 si alleò con le bande borboniche contro le truppe regolari italiane, si rifugiò nello Stato Pontificio ma fu catturato e condannato a morte.

Nel 1874 la condanna inflitta precedentemente fu trasformata in un condanna ai lavori forzati a vita. Morì in carcere nel 1905.

PUBBLICATO IL 30/03/2004 DA http://www.japigia.com/docs/index.shtml?A=brigantaggio

L'industria nel Regno delle Due Sicilie


tratto da http://digilander.libero.it/consultaperilsud/search.htm

Fra le regioni più industrializzate d' Italia, prima del 1860, c’erano la Campania, la Calabria e la Puglia: per i livelli di industrializzazione le Due Sicilie si collocavano ai primi posti in Europa.

In Calabria erano famose le acciaierie di Mongiana, con due altiforni per la ghisa, due forni  Wilkinson per il ferro e sei raffinerie, occupava 2.500 operai. L’industria decentrata della seta occupava oltre 3.000 persone.

La piu' grande fabbrica metalmeccanica del Regno era quella di Pietrarsa, (fra Napoli e Portici), con oltre 1200 addetti: un record  per l’Italia di allora. Dietro Pietrarsa c’era l’Ansaldo di Genova, con 400 operai. Lo stabilimento napoletano produceva macchine a vapore, locomotive, motori navali, precedendo di 44 anni la Breda e la Fiat.

A Castellammare di Stabia, dalla fine del XVIII secolo, operavano i cantieri navali più importanti e tecnologicamente avanzati d’Italia. L In questo cantiere fu allestita la prima nave a vapore, il  Real Ferdinando, 4 anni prima della prima nave a vapore inglese. Da Castellammare di uscirono la prima nave a elica d' Italia e la prima nave in ferro. La tecnologia era entrata anche in agricoltura, dove per la produzione dell’olio in Puglia erano usati impianti meccanici che accrebbero fortemente la produzione.

L' Abruzzo era importante per le cartiere (forti anche quelle del Basso Lazio e della Penisola Amalfitana), la fabbricazione delle lame e le industrie tessili. La Sicilia esportava zolfo, preziosissimo allora, specie nella provincia di Caltanissetta, all' epoca una delle città più ricche e industrializzate d' Italia. In Sicilia c'erano porti commerciali da cui partivano navi per tutto il mondo, Stati Uniti ed Americhe specialmente. Importante, infine era l' industria chimica della Sicilia che produceva tutti i componenti e i materiali sintetici conosciuti allora, acidi, vernici, vetro.

Puglia e Basilicata erano importanti per i lanifici e le industrie tessili, molte delle quali gia' motorizzate. La tecnologia era entrata anche in agricoltura, dove per la produzione dell’olio in Puglia erano usati impianti meccanici che accrebbero fortemente la produzione. Le macchine agricole pugliesi erano considerate fra le migliori d’Europa. La Borsa  più importante del regno era, infine, quella di Bari.

Una volta occupate le Due Sicilie, il governo di Torino iniziò lo smantellamento cinico e sistematico del tessuto industriale di quelle che erano divenute le “province meridionali”.  Pietrarsa (dove nel 1862 i bersaglieri compirono un sanguinoso eccidio di operai per difendere le pretese del padrone privato cui fu affidata la fabbrica) fu condannata a un inarrestabile declino. Nei cantieri di Castellammare furono licenziati in tronco 400 operai. Le acciaierie di Mongiana furono rapidamente chiuse, mentre la Ferdinandea di Stilo (con ben 5000 ettari di boschi circostanti) fu venduta per pochi soldi a un colonnello garibaldino, giunto in Calabria al seguito dei “liberatori”.

mercoledì 18 aprile 2012

LA POLITICA FISCALE UNITARIA di Giuseppe Ressa

Riportiamo un interessante stralcio del libro di Giuseppe Ressa, Il Sud e l'Unità d'Italia, liberamente scaricabile da internet al paragrafo, Le conseguenze dell’annessione.
Si nota come sia ancora molto attuale e che si utilizzino gli stessi mezzi.


Nelle Due Sicilie, nel 1859, la tassazione complessiva era di 14 franchi o lire a testa, nel 1866, a soli sei anni dall’annessione, era arrivata a 28, il doppio di quanto pagava l'“oppresso“ popolo meridionale prima che i Savoia venissero a “liberarlo“ [1]. Furono introdotte molte nuove imposte, in precedenza inesistenti al Sud.
Tav.1 - Le imposizioni fiscali nel Sud subito dopo la conquista piemontese [2]

  • Imposta personale
  • Tassa sulle successioni
  • Tassa sulle donazioni, mutui e doti; sull’emancipazione ed adozione
  • Tassa sulle pensioni
  • Tassa sanitaria
  • Tassa sulle fabbriche
  • Tassa sull’industria
  • Tassa sulle società industriali
  • Tassa per pesi e misure
  • Diritto d’insinuazione
  • Diritto di esportazione sulla paglia, fieno, ed avena
  • Sul consumo delle carni, pelli, acquavite e birra
  • Tassa sulle mani morte
  • Tassa per la caccia
  • Tassa sulle vetture

IIl governo unitario “estese il sistema fiscale piemontese a tutti i vecchi Stati che erano entrati a far parte del nuovo regno. Avvenne così, per effetto del nuovo ordinamento che il regno delle Due Sicilie si trovò, ad un tratto ...a passare dalla categoria dei paesi a imposte lievi in quella dei paesi a imposte gravissime” [3]. Accorpando i dati complessivi sulle imposte, dividendoli per categorie di entrate, notiamo che nel periodo 1861-1873 le imposte indirette erano quantitativamente il doppio di quelle dirette (663.599.000 milioni contro 326.481.000 [4]) le prime, com’è noto, colpiscono i consumi (macinato, tabacchi, dazi di confine e di consumo, gabelle varie, sale, lotto) e quindi gravano proporzionalmente di più sui redditi più bassi mentre le seconde incidono sui redditi più alti. Ma non è tutto: le imposte dirette seguivano la proporzionale secca, non erano progressive rispetto al reddito individuale per cui i cittadini con poche sostanze e le classi agiate pagavano la stessa percentuale fissa di tasse; è noto come, invece, sia molto più equa una imposta diretta che cresce percentualmente rispetto ai vari scaglioni di reddito.

La politica fiscale perseguita dallo Stato unitario fu, poi, assolutamente ingiusta perchè non omogenea dal Nord al Sud; il primo venne avvantaggiato, il secondo penalizzato.
Per quanto riguarda l’agricoltura mentre nelle Due Sicilie si pagano 40 milioni d’imposta fondiaria, nel 1866 se ne pagheranno 70, contro i 52 del nord; la differenza è anche più evidente se si considerano le aliquote per ettaro: nelle province di Napoli e Caserta si pagano lire 9,6 per ettaro contro la media nazionale di l. 3,33 [5]. “È pubblica ed ufficiale la dichiarazione del tempo circa il fatto che, in attesa di completare la definitiva situazione dei valori catastali, “provvisoriamente” si sarebbe proceduto nella “presunzione” che il nord fosse fiscalmente più gravato del sud e quindi, provvisoriamente (una provvisorietà che durò 40 anni) si “aggiornarono” i ruoli della fondiaria, con automatico aggiornamento anche di quelli di sovrimposta comunale. L’aggiornamento produsse nuove equità che sono ben documentate da amenità del genere: Lombardia e Veneto pagavano un’aliquota dell’ 8.8% mentre la Calabria del 15%, la Sicilia del 20% … nel 1886 si decise di unificare in un unico catasto i 22 catasti degli ex stati indipendenti … si fece di tutto per far durare il più a lungo possibile il regime provvisorio (bastò un anno dal 1923 al 1924 per confezionare lo strumento)” [6].

Per quanto riguarda l’imposta sulla proprietà edilizia il Sud pagava molto più del Nord e “questa chicca venne realizzata senza dover neppure ricorrere ad una norma speciale (provvisoria o stabile) ma solo usufruendo della circostanza che la popolazione del nord risiedeva in campagna (e dunque la casa diveniva pertinenza dei fondi rustici e rientrava nell’imposta fondiaria) mentre al sud i contadini abitavano nei borghi rurali (e dunque pagavano l’imposta sui fabbricati come se si trattasse di città)…furono necessarie due leggi speciali - nel 1906 per il Mezzogiorno continentale e nel 1908 per la Sicilia- per prendere atto che un borgo rurale era un borgo rurale nè più nè meno di tre case di campagna, e che, dunque, a sud andava trattato come al nord: ma, ormai, nel primo decennio del ‘900 l’operazione di drenaggio fiscale durata mezzo secolo nel sud era praticamente conclusa, nulla c’era più da prelevare e si poteva fare ritorno alla logica elementare”[7]. Per quanto riguarda le tasse sugli affari che incidono per lire 7,04 pro capite in Campania, contro 6,70 in Piemonte e 6,87 in Lombardia [8].

Si calcola che l’ingiustizia fiscale sia costata al Sud 100 milioni/anno: nel “1901 il Mezzogiorno produceva un redito pari al 22/23 % di quello complessivo italiano, ma pagava imposte sul reddito pari al 35/37% di tutte le imposte sul reddito precette in Italia” [9]. Successivamente le cose non cambieranno, così, nel primo decennio del secolo ventesimo, una provincia depressa come quella di Potenza paga più tasse d’Udine e la provincia di Salerno, ormai lontana dalla floridezza dell'epoca borbonica essendo state chiuse cartiere e manifatture, paga più tasse della ricca Como [10]. L’iniquo sistema fiscale provocò ovviamente una grossa differenza tra nord e sud sulle espropriazioni per il mancato pagamento di tasse (da una per ogni 27mila abitanti nel Piemonte e Lombardia, si passa ad una a 900 per Puglia e Lucania e una a 114 in Calabria) [11].

Non è tutto: il 18 febbraio 1861 i decreti Mancini abrogano il Concordato in vigore tra le Due Sicilie e lo Stato della Chiesa, sono sequestrati e venduti i beni ecclesiastici che fruttano allo Stato unitario oltre 600 milioni.
Giuseppe Ressa

1] O' Clery, op. cit.; (in realtà l’unità monetaria meridionale era il ducato equivalente a 4,25 lire, N.d.A.)
[2] G. Savarese, " Le finanze napoletane e le finanze piemontesi dal 1848 al 1860", Cardamone, 1862, p.28.
[3] F.S.Nitti, Il Bilancio dello Stato dal 1862 al 1897, Napolo, 1900, pagg. 52-53
[4] Aldo Alessandro Mola, op. cit. pag. 63
[5] Nítti F. S., Il bilancio dello stato dal 1862 al 1896-97, Napoli 1900., p. 107
[6] Aldo Servidio, L’imbroglio nazionale, Guida, 2002, pag. 120, modif.
[7] ibidem, pag. 121
[8] Nitti F.S., op. cit.
[9] Aldo Servidio, op.cit, pag.124
[10] Nitti F. S., op. cit., p. 141.
[11] Luzzatto G., L’economia italiana dal 1861 al 1894 (Torino 1968), p. 172
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L'ITALIA NON ESISTE!

Ho il sospetto che l’Italia non esista. Che sia, come disse Metternich, un’espressione geografica. Un vestito di Arlecchino su una penisola di popoli e culture diverse tra loro. Una camicia di forza che tiene insieme un Paese riconosciuto dall’Onu, ma sconfessato ogni giorno dai suoi abitanti. Ho il sospetto che da questo sogno, o incubo, ad occhi aperti nascano tutti i nostri problemi. Il comunismo sovietico scrisse i libri di storia per gli studenti polacchi, cechi e lettoni, georgiani e ucraini. Lo stesso fecero il nazismo con i tedeschi, il franchismo con gli spagnoli, il fascismo con gli italiani. Libro di testo, verità di Stato, anche ora, nelle nostre scuole.
Il Risorgimento è stato un errore storico? Forse no, ma vogliamo cominciare a parlarne dopo quasi 150 anni? I Borbone erano regnanti legittimi. Napoli una delle più fiorenti capitali d’Europa. Francesco II amato dai suoi sudditi e la mafia quasi inesistente. Qualcuno ancora crede che i Savoia abbiano liberato le plebi meridionali? L’emigrazione verso le Americhe di milioni di persone dal Veneto e dal sud Italia fu la diretta conseguenza della politica economica dei Savoia. Due guerre mondiali intervallate da guerre di conquista un po’ ovunque in Africa e nel Mediterraneo. Il fascismo. Le mafie. La partitocrazia. Nel 1861 la lingua italiana non la parlava quasi nessuno. Fu imposta per legge. Culture millenarie furono distrutte. Ne valeva la pena? Forse, ma qualcuno dovrebbe spiegarci delle decine di migliaia di meridionali chiamati briganti per poterli ammazzare con la giustificazione. Dei plebisciti all’annessione fatti con quattro gatti. Dell’occupazione di Stati indipendenti da secoli.
Per stare insieme ci vogliono dei buoni motivi anche tra marito e moglie, tra Stati, perchè l’Italia è una somma di ex Stati, ancora di più. Le guerre d’indipendenza le hanno vinte le truppe di Napoleone III, la prima guerra mondiale gli Alleati, l’ultima guerra è invece finita pari. L’abbiamo vinta e anche persa, dipende a che partito politico si appartiene. Dal 1945 la nostra politica estera è fatta dalle truppe americane presenti in Italia.
Siamo un Paese? Su quali basi storiche, sociali, culturali? Abbiamo paura di guardarci allo specchio. Sono bastati quattro mona saliti sul campanile di san Marco a spaventare lo Stato. Leggete i libri di storia delle elementari e delle medie dei vostri figli. Troverete la celebrazione del Risorgimento, i Padri della Patria, ma dell’Italia non troverete traccia.

NON LASCERANNO AI MERIDIONALI NEMMENO GLI OCCHI PER PIANGERE

I Borbone avevano conservato il loro regno integro; i piemontesi, che avevano invaso un Regno senza dichiarazione di guerra, trovarono oro e denaro, saccheggiarono tutto quello che c’era da saccheggiare, massacrarono intere popolazioni, misero a ferro e fuoco il Sud per dieci anni, lo impoverirono, trasferendo tutte le sue ricchezze nel Piemonte.

Francesco II, partendo da Gaeta il 14 febbraio 1861, disse al comandante Vincenzo Criscuolo: «Vincenzino, i napoletani non hanno voluto giudicarmi a ragion veduta; io però ho la coscienza di avere fatto sempre il mio dovere, Il Nord non lascerà ai meridionali neppure gli occhi per piangere”.
Mai parole furono così vere!

Dal 1860 al 1870 i piemontesi riuscirono a depredare tutto quello che c’era da prendere, svuotarono le casse dei comuni, quelle delle banche, quelle dei poveri contadini, quelle delle comunità religiose, dei conventi; saccheggiarono le chiese e le campagne; smontarono i macchinari delle fabbriche per montarli al nord; rubarono opere d’arte, quadri, statue.

Le miniere di ferro, il laboratorio metallurgico della Mongiana in Calabria; le industrie tessili della Ciociaria; le manifatture di Terra di Lavoro; i tanti cantieri navali sparsi per tutto il Mezzogiorno; la magnifica fabbrica di Pietrarsa che dava con l’indotto lavoro a settemila persone; le scuole pubbliche e, soprattutto, la dignità e la libertà furono tolte ai Meridionali i quali, coraggiosamente, preferirono andare a morire partigiani sui monti dell’ Appennino, piuttosto che veder calpestato il suolo della patria napoletana dalle “orde di assassjnj e ladroni del nord”.

Erano così rapaci i fautori dell’Italia Unita che a Napoli furono trafugate anche le batterie della cucina dei palazzi reali. Presero la via di Torino anche due enormi mortai di bronzo cesellati, che stavano negli ospedali militari della Trinità e del Santo Sacramento, tali opere erano state create da Benvenuto Cellini.

Tutto il Sud fu razziato e spogliato delle sue fabbriche e delle sue ricchezze: a guerra civile terminata, nel 1871, le più oneste e migliori menti della classe imprenditoriale, quel poco che restava di media borghesia oltre a una miriade di contadini e di operai del Sud, che fino al 1860 non avevano mai conosciuto l’emigrazione, furono costretti ad arricchire gli stati del continente americano.

Fino al 1860, il Regno delle Due Sicilie, ricco di pace, di memorie, di costumi, di commercio, di prosperità, di arti, di industrie, di pesca, di agricoltura, di artigianato, era l’invidia delle genti: scuole gratis, teatri, opere d’ingegneria, meravigliosi musei, strade ferrate, gas, opifici, opere di carità, bacini, cantieri navali, arsenali davano lavoro a tutto il popolo.


Non c’era disoccupazione, era il primo stato Sociale, il primo stato Illuminato del mondo.

Dal 1860 al 1871 il Meridione divenne un inferno.

Secondo i dati del primo censimentonto dell’Italia unita (1861) risulta che su 668 milioni di lire incamerati nelle casse piemontesi, ben 443 appartenevano al Regno delle Due Sicilie


NORD LADRO

Quando si parla d’industria, l’immaginario collettivo pensa al Nord, pensa al triangolo industriale Milano, Genova, Torino, come se il Padreterno avesse eletto i padani a condurre l’economia, come se i meridionali fossero incapaci di produrre beni, ma solo in grado di consumare ricchezza.

Leggendo le statistiche del primo censimento dell’unità d’Italia, ci accorgiamo che gli addetti nell’industria.

Questi sono dati forniti dal governo piemontese nel 1861 e quindi inconfutabili. 1.595.359 addetti nell’industria del Regno Borbonico contro 1.170.859 addetti del resto d’Italia.

La Campania nel 1860 era tra le regione più industrializzata del mondo ed oggi, dopo 150 anni di potere liberal massonico, è definita terra di camorra.

Oggi è sotto gli occhi di tutti la voragine debitoria di questo Stato!

Nel 1860 scannarono il Sud e il Sud ha pagato un prezzo enorme alla causa unitaria: quasi un milione di morti, tra fucilati, incarcerati, impazziti, un decimo della popolazione, 20 milioni di emigranti; la spoliazione delle terre demaniali e dei beni ecclesiastici, tutti i risparmi dei Meridionali rapinati.

I pennivendoli di regime continuano a scrivere libri di storia menzogneri sull’Unità d’Italia, danno al Sud colpe tremende di parassitismo; continuano a chiamare “borbonica” la cattiva amministrazione e la burocrazia di stampo piemontese e, soprattutto, sono riusciti ad inculcare nell’immaginario collettivo, senza spiegarne le cause, bombardando continuamente le menti ormai fiaccate della gente, che Sud vuol dire mafia, vuol dire camorra, vuol dire ‘ndrangheta, vuol dire far niente, vuol dire assistito.

Ecco, questi pennivendoli sperano di mettere un velo sull’intelligenza umana, di far dimenticare a qualcuno le miserie del Nord, gli eccidi perpetrati dagli invasori piemontesi, le prepotenze dei liberalmassoni di ieri e di oggi e soprattutto vorrebbero farci dimenticare che il Sud era ricco.

tratto dal sito:

http://www.veja.it/?/archives/2006/11/22_html&paged=38

autore Antonio Ciano

martedì 17 aprile 2012

Gloria e morte di Pietrarsa

di Angelo Forgione

I documenti del “Fondo Questura” dell’Archivio di Stato di Napoli riportano ciò che accadde nell’estate del 1863. Fascio 16, inventario 78: è tutto scritto li.


Il “Real Opificio Borbonico di Pietrarsa”, prima dell’invasione piemontese, era il più grande polo siderurgico della penisola italiana, il più prestigioso coi suoi circa 1000 operai. Voluto da Ferdinando II di Borbone per affrancare il Regno di Napoli dalle dipendenze industriali straniere, contava circa 700 operai già mezzo secolo prima della nascita della Fiat e della Breda. Un gioiello ricalcato in Russia nelle officine di Kronštadt, nei pressi di San Pietroburgo, senza dubbio un vanto tra i tanti primati dello stato napoletano. Gli operai vi lavoravano otto ore al giorno guadagnando abbastanza per sostentare le loro famiglie e, primi in Italia, godevano di una pensione statale con una minima ritenuta sugli stipendi. Con l’annessione al Piemonte, anche la florida realtà industriale napoletana subì le strategie di strozzamento a favore dell’economia settentrionale portate avanti da quel Carlo Bombrini, uomo vicino al Conte di Cavour e Governatore della Banca Nazionale, che presentando a Torino il suo piano economico-finanziario tesio ad alienare tutti i beni dalle Due Sicilie, riferendosi ai meridionali, si lasciò sfuggire la frase «Non dovranno mai essere più in grado di intraprendere». Bombrini era uno dei fondatori dell’Ansaldo di Genova, società alla quale furono indirizzate tutte le commesse fino a quel momento appannaggio di Pietrarsa. Prima del 1860, nata per volontà di Cavour di dar vita ad un’industria siderurgica piemontese che ammortizzasse le spese per le importazioni dalle Due Sicilie e dall’Inghilterra, l’Ansaldo contava la metà degli operai di Pietrarsa che raddoppiarono già nel 1862.



Dopo l’Unità d’Italia l’opificio partenopeo passò alla proprietà di Jacopo Bozza, un uomo con la fama dello sfruttatore. Costui, artificiosamente, prima dilatò l’orario di lavoro abbassando nello stesso tempo gli stipendi, poi tagliò in maniera progressiva il personale mettendo in ginocchio la produzione. Il 23 Giugno 1863, a seguito delle proteste del personale, promise di reimpiegare centinai di operai licenziati tra i 1050 impiegati al 1860. La tensione era palpabile come testimonia il fitto scambio di corrispondenza tra la direzione di Pietrarsa e la Questura. Sui muri dello stabilimento comparve questa scritta: "muovetevi artefici, che questa società di ingannatori e di ladri con la sua astuzia vi porterà alla miseria". Sulle pareti prossime ai bagni furono segnate col carbone queste parole: “Morte a Vittorio Emanuele, il suo Regno è infame, la dinastia Savoja muoja per ora e per sempre”. Gli operai avevano ormai capito da quali cattive mani erano manovrati i loro fili.

La promessa di Bozza fu uno dei tanti bluff che l’impresario nascondeva continuando a rassicurare i lavoratori e rallentando la loro ira elargendo metà della paga concessa dal nuovo Governo, una prima forma di cassa-integrazione sulla quale si è retta la distruzione dell’economia meridionale nel corso degli anni a venire, sino a qui.


Il 31 Luglio 1863 gli operai scendono ad appena 458 mentre a salire è la tensione. Bozza da una parte promette pagamenti che non rispetterà, dall’altra minaccia nuovi licenziamenti che decreterà.

La provocazione supera il limite della pazienza e al primo pomeriggio del 6 Agosto 1863, il Capo Contabile dell’opificio di Pietrarsa, Sig. Zimmermann, chiede alla pubblica sicurezza sei uomini con immediatezza perché gli operai che avevano chiesto un aumento di stipendio incassano invece il licenziamento di altri 60 unità. Poi implora addirittura l’intervento di un Battaglione di truppa regolare dopo che gli operai si sono portati compatti nello spiazzo dell’opificio in atteggiamento minaccioso.



Convergono la Guardia Nazionale, i Bersaglieri e i Carabinieri, forze armate italiane da poco ma piemontesi da sempre, che circondano il nucleo industriale. Al cancello d’ingresso trovano l’opposizione dei lavoratori e calano le baionette. Al segnale di trombe al fuoco, sparano sulla folla, sui tanti feriti e sulle vittime. La copertura del regime poliziesco dell’epoca parlò di sole due vittime, tali Fabbricini e Marino, e sei feriti trasportati all’Ospedale dei Pellegrini. Ma sul foglio 24 del fascio citato è trascritto l’elenco completo dei morti e dei feriti: oltre a Luigi Fabbricini e Aniello Marino, decedono successivamente anche Domenico Del Grosso e Aniello Olivieri. Sono questi i nomi accertati dei primi martiri della storia operaia italiana.


I giornali ufficiali ignorano o minimizzano vergognosamente il fatto a differenza di quelli minori. Su “Il Pensiero” si racconta tutto con dovizia di particolari, rivelando che in realtà le vittime sarebbero nove. “La Campana del Popolo” rivela quanto visto ai “Pellgrini” e parla di palle di fucile, di strage definita inumana. Tra i feriti ne decrive 7 in pericolo di vita e anche un ragazzino di 14 anni colpito, come molti altri, alle spalle, probabilmente in fuga dal fuoco delle baionette.


Nelle carte, dai fogli 31 a 37, si legge anche di un personaggio oggi onorato nella toponomastica di una piazza napoletana, quel Nicola Amore, Questore durante i fatti descritti, che definisce "fatali e irresistibili circostanze" quegli accadimenti. Lo fa in una relazione al Prefetto mentre cerca di corrompere inutilmente il funzionario Antonino Campanile, testimone loquace e scomodo, sottoposto a procedimento disciplinare e poi destituito dopo le sue dichiarazioni ai giornali. Nicola Amore, dopo i misfatti di Pietrarsa, fece carriera diventando Sindaco di Napoli.


Il 13 ottobre vengono licenziati altri 262 operai. Il personale viene ridotto lentamente a circa 100 elementi finché, dopo finti interventi, il governo riduce al lumicino le commesse di Pietrarsa, decretando la fine di un gioiello produttivo d’eccellenza mondiale. Pietrarsa viene declassata prima ad officina di riparazione per poi essere chiusa definitivamente nel 1975. Dal 1989, quella che era stata la più grande fabbrica metalmeccanica italiana, simbolo di produttività fino al 1860, è diventata un museo ferroviario che è straordinario luogo di riflessione sull’Unità d’Italia e sulla cosiddetta “questione meridionale”.


Alla memoria di Luigi Fabbricini, Aniello Marino, Aniello Olivieri e Domenico Del Grosso, napoletani, morti per difendere il proprio lavoro. Uomini che non sono più tornati alle loro famiglie per difendere il proprio lavoro, dimenticati da un’Italia che non gli dedica un pensiero, una piazza o un monumento, come accade invece per i loro carnefici.