sabato 14 aprile 2012

Il mito: Pasquale Bruno



Pasquale Bruno era un brigante vissuto tra Bauso e Calvaruso tra la fine del Settecento e l’agosto del 1803, data della sua impiccagione nella Marina di Palermo, reso famoso dalla penna di Alessandro Dumas che, nel 1838, scrisse appunto il “Pascal Bruno”, quasi la prova generale de “I tre moschettieri” pubblicato sei anni dopo. In Italia il romanzo “storico” di Dumas fu tradotto e pubblicato nel 1841 per i tipi dello “Stabilimento Poligrafico Empedocle di Palermo. Forse solo allora i “bausoti” hanno appreso di avere varcato con un’inaspettata notorietà i confini del “Regno delle due Sicilie”.

Poi per centocinquant’anni la vicenda del bandito e il romanzo di Dumas sono finiti nel dimenticatoio, se si escludono i racconti dei più anziani e qualche copia dattilografata del libro custodita da alcuni come se fosse una preziosa reliquia. “Pascal Bruno” ritrova la strada delle librerie nel 1988 quando, quasi contemporaneamente, e all’insaputa l’uno dell’altro, ripubblicano il romanzo le “Edizioni della Zisa” di Palermo, che ripropone la versione del 1841 riveduta e annotata a cura di Claudio Rizza, e il professore Giuseppe Celona, cultore di storia locale, nato a Villafranca Tirrena ma trasferitosi da parecchi anni a Ficarra, che ritraduce e annota il romanzo direttamente dall’originale in francese. Passa ancora un anno e nell’interesse ritrovato per la storia del brigante bausano, tra i volumi della Biblioteca regionale di Messina viene fuori un tassello di verità sul racconto dello scrittore francese.

Il “Giornale di Sicilia” pubblica un interessante articolo nella pagina “Cultura e società”, a firma di Giuseppe Mazzone, che scrive che ogni dubbio sulla reale esistenza del bandito raccontato da Dumas è fugato. Nell’articolo si parla anche del documento ritrovato nella “Cronologia degli afflitti della nobile Compagnia dei Bianchi”, nei “Documenti per servire alla storia di Sicilia” pubblicati a Palermo nel 1917 a cura della “Società siciliana per la storia patria”. A Villafranca pochi giorni dopo si è tenuta la presentazione della versione tradotta da Giuseppe Celona ma, incomprensibilmente, si è continua ad ignorare la novità emersa con il ritrovamento dei documenti. Inconguenze di una leggenda Nel minuzioso resoconto delle esecuzioni capitali effettuate tra la fine del Settecento e l’Ottocento inoltrato leggiamo che nel 1783 “A cinque maggio. – Nel Piano della Marina, per sentenza della R.G.C. fu impiccato Antonino Bruno, alias “Zuzza”, da Calvaruso, autore degli omicidi di D. Rosario Corso, Governatore di Bavuso e di Pietro Olino, e perché ancora autore di: “delitti d’imperio, d’usurpata giurisdizione del mero e misto impero della terra di Bavuso, e di altri delitti contro la forma delle Regie prammatiche, e asportazione d’armi proibiti, e di resistenza di giustizia fatto nell’atto della cattura”. Nella sentenza non si fa evidentemente menzione del tentato omicidio del principe di Castelnuovo, così come racconta nel suo romanzo Dumas. Francesco Nicotra scrive invece che «Antonino Bruno, sopranominato Zuzza, avendo commesso molti reati e giovandosi degli antichi privilegi feudali, detti dei Marammisti, sfuggiva alla cattura; ma per tranello tesogli capitò nelle mani della giustizia, e, condannato all’estremo supplizio, il suo teschio fu chiuso in un gabbione di ferro che rimase lungamente appeso ai merli del castello”. Nessun cenno sull’onore violato e Jus primae noctis che avrebbe acceso la violenta gelosia del Bruno.

Il più noto Pasquale Bruno, anch’egli soprannominato Zuzza, sia per la leggenda che per la storia fu il degno figlio di cotanto padre, e solo per il Nicotra è invece il nipote. (Molte delle notizie riportate nel suo “Dizionario dei comuni siciliani”, Francesco Nicotra le apprendeva dai segretari comunali e dai soliti acculturati locali; questi ultimi spesso riportavano informazioni per sentito dire con la conseguenza che ancora oggi è difficile separare la leggenda dalla verità storica. Ancora oggi sono gustose quelle storielle che raccontano gli anziani di Villafranca che, a loro volta, le hanno sentite in gioventù dai loro nonni, e che narrano, per fare un esempio, di un Pasquale Bruno che, con mira sorprendente, sparava, direttamente dalle finestre del suo palazzo, sulle alture di Bauso, a preti e nobili del castello che si trova un centinaio di metri più in basso. Francamente anche l’identificazione del “Palazzo di Pasquale Bruno”, che viene oggi data per buona, sembra alquanto risibile e priva di qualsivoglia appiglio storico).

Vent’anni dopo il padre, viene impiccato Pasquale. Analoga sorte del Padre Antonino tocca a Pasquale giusto vent’anni dopo, il 31 agosto del 1803: ancora per sentenza della regia Gran Corte venne impiccato nel piano della Marina a Palermo. “Reo convinto di più omicidi e di altri delitti, – recitava il biglietto di giustizia consegnato il 29 agosto dal R.P.F. Francesco maggiore ai confrati del Santissimo Crocefisso dei Bianchi – con dovergliesi poi recidere il capo e le mani, che si dovranno apporre nella terra di Bauso. E siccome il Tribunale medesimo ha abbreviato il termine della cappella, così dovrà lo stesso entrare in cappella oggi stesso per eseguirsi la giustizia Mercoldì 31 del cadente”. Si tratta pertanto di “omicidi” e “delitti” plurimi ma non meglio definiti, circostanza piuttosto strana per la “Cronologia degli afflitti” che generalmente precisa i reati, così come era avvenuto nel caso di Antonino Bruno e come è possibile leggere per diversi condannati. Anche questa coincidenza alla fine fa il gioco della leggenda, e così nel romanzo e nella fantasia popolare Pasquale Bruno è l’eroe buono che combatte contro le soverchierie dei potenti, in particolare contro quel principe di Castelnuovo violentatore della madre, tanto da meritarsi, in tempi moderni, anche l’intitolazione di una strada. Il principe di Castelnuovo e Conte di Bauso era nell’arco di tempo in cui vengono immaginati questi fatti Gaetano Cottone Morso (1714-1802), sposato in prime nozze con Anna Maria Barzellini, morta a diciannove anni a Palermo, e in seconde nozze con Lucrezia Cedronio e Gisulfo dalla quale ebbe il figlio Carlo Filippo Cottone e Cedronio che gli succedette nei titoli il 20 ottobre 1803, due mesi dopo la morte di Pasquale Bruno. Sintetiche ma eloquenti notazioni di un biografo di Carlo Cottone ci fanno immaginare la vita e i costumi della sua famiglia a Palermo: “Carlo Cottone non volle seguire l’indirizzo educativo della propria casta, che risentiva del convenzionalismo aristocratico… Il principe Gaetano Cottone e la Contessa Cedronio che si tenevano in Palermo col fasto medioevale, educarono, altresì il figliuolo Carlo alle arti cavalleresche; ma non poterono vincere la sua innata ripugnanza alle mollezze signorili ed alle pompe gentilizie…”. (Ferdinando Alfonso, Illustrazione dello Istituto Agrario Castel-nuovo, Palermo 1897, pp.7, 8). Nella versione originale del “Pasquale Bruno” Dumas afferma di avere appreso la vicenda del bandito messinese dai racconti del compositore Vincenzo Bellini, e suggestionato da questi fatti avventurosi di avere visitato poi i luoghi che vi facevano da scenario: “giunsi a Bauso, vidi l’albergo, salì per quella strada, scorsi le due gabbie di ferro, una vuota, l’altra piena”. (Celona, p. 11). La figura del musicista catanese invece non compare nella traduzione italiana del 1841 dove invece la presentazione della città di Palermo è preceduta da una digressione generale sulle città del mondo. (Rizza, p. 13-14 ).

Le incongruenze temporali saltano agli occhi: Bellini afferma che “Pasquale Bruno… è morto proprio l’anno della mia nascita”, che risponderebbe al 1801; più avanti il racconto di Dumas fissa una prima data “era una sera del settembre 1803 (Celona pp. 10-18); “Il primo maggio 1805, si faceva festa nel castello di Castelnuovo. Pasquale Bruno era di buon umore”, ma non immaginava che proprio in quell’occasione, tradito da un amico, sarebbe stato catturato da un gran numero di gendarmi per ordine del principe di Carini dopo una notte di assedio in cui da solo tenne testa ai drappelli armati di tutto punto. (Celona pp. 112 e seguenti). Queste date ritornano, evidentemente ad eccezione di quella relativa al Bellini, nell’edizione italiana del 1841 (La Zisa p. 16 e p. 85). La vicenda si ripete uguale ma più sintetica nel racconto di Giuseppe Canuti che tuttavia si arricchisce di particolari inediti sulla vita del bandito precedente ai fatti narrati dal romanzo ( Giuseppe Canuti. I briganti, i banditi e i pirati celebri, p. 68-69): l’autore , che passa in rassegna i personaggi più noti alla fantasia popolare, attingendo evidentemente a fonti diverse, non ultime le canzoni dei cantastorie o gli stessi racconti orali, riporta tuttavia in aggiunta che Pasquale Bruno (di cui erroneamente si riferisce la nascita a Bauso, mentre il brigante era di Calvaruso) nacque nel 1780 e che aveva circa otto anni quando il conte di Castelnuovo s’innamorò di sua madre (in realtà il padre Antonino a quell’epoca era già morto), visto che venne impiccato nel 1783), che dopo averla violentata “le fece dare, come pegno del suo amore cinquanta frustate sulla schiena, col pretesto di non essersi piegata con amore alla sua volonta” (Canuti p. 68), e che il conte, pugnalato da Antonio Bruno morì, mentre nel romanzo di Dumas le ferite inferte dal marito vendicatore non risultano mortali. (Alba Drago Beltrandi – Castelli di Sicilia p. 60 afferma “Questa orrida vicenda di teste mozzate, che incombe sul castello con la sua lugubre memoria venne rappresentata nei teatrini dei “Pupi” dove la vita di Pasquale Bruno, brigante intemerato, raffigurato con barbe, occhi e unghie nerissimi e trombone a tracolla, assieme al fido Alì con lunga scimitarra, continua a far fremere di entusiasmo i piccoli spettatori di tali spettacoli ormai rari”). In conclusione si affida il condannato alla “carità cristiana” e alla pietosa assistenza della Confraternita che lo avrà in consegna sino al momento in cui salirà su patibolo. A questo punto i confrati provvedono ad assegnare al condannato i consueti “conforti“: Girolamo Termini Duca di Vatticani per Capo di Cappella, Padre Ottavio Gerardi del Terz’Ordine per confessore, il barone Don Michele Lanza e il sacerdote Don Carlo Agnetta come novizi.

Ma mentre i quattro designati attendono alla porta segreta che comunica con la prigione la consegna del reo, il Capitano della Regia Corte annuncia la sospensione della consegna a causa di un avvenimento che non ha alcuna rispondenza nel racconto romanzato di Dumas: Pasquale Bruno ha tentato il suicidio. “Aveasi propinato una quarta di sublimato Corrusivo disciolto nell’acqua, che avea tenuto fin da quattro mesi nascosto nel fazzoletto da collo… “. Bisognava quindi attendere l’ulteriore svolgimento della vicenda. Da queste note curate dal Cancelliere della Confraternita Cavalier Don Gaspare Palermo parrebbe pertanto che il Bruno fosse prigioniero da quattro mesi, mentre, nel romanzo di Dumas, non si fa cenno al tempo intercorso tra il suo arresto a Messina e l’esecuzione capitale a Palermo, ma si evince soltanto che il principe di Castelnuovo apprese dell’arresto di Pasquale cinque giorni dopo l’avvenimento e poi “aveva facilmente ottenuto che il condannato fosse trasferito da Messina a Palermo; e Pasquale Bruno, scortato da due capitani d’arme con le loro intere compagnie e da altri rinforzi di truppe, con tutto l’apparato della giustizia entrò nelle grandi prigioni della capitale…”. La versione romanzata ci presenta poi un Pasquale Bruno eroico e coerente fino all’ultimo istante: nelle ore precedenti la sua esecuzione rifiuta la confessione perché sa di non poter perdonare chi ha fatto del male a lui e alla sua famiglia, trascorre la notte in chiesa in meditazione, guarda caso proprio accanto a una bara che contiene il corpo di Teresa, la fidanzata impazzita per amore e per la lontananza. Nei registri dei confrati invece inizia qui il racconto di ore terribili, di sofferenze fisiche, dovute all’azione del veleno che il bandito aveva ingerito, e spirituali, a causa dell’insinuarsi nella sua anima del pentimento. Si tratta chiaramente di testimonianza quanto mai interessata perché la Compagnia dei Bianchi, i fratelli della Buona Morte per Dumas, avevano tutto l’interesse a dimostrare il pentimento del reo, almeno tanto quanto la Regia Gran Corte aveva interesse al fine esemplare delle esecuzioni capitali. Dai documenti originali della “Compagnia del Crocifisso o dei Bianchi”. 1783 – A 5 maggio.- Nel piano della marina, per sentenza del R.G.C. fu impiccato Antonino Bruno, alias Zuza, da Calvaruso, autore degli omicidi di D. Rosario Corso, governatore di Bavuso e di Pietro Olino, e perché ancora autore di: “delitti d’imperio, di usurpata giurisdizione del misto e mero impero della terra di Bavuso, e di altri delitti contro la forma delle Regie Prammatiche, e asportazione d’armi proibite, e di resistenza di giustizia fatto fatto nell’atto della cattura”. 1803 – A 31 agosto – Nel piano della Marina, per sentenza della R.G.C., fu impiccato Pasquale Bruno, alias “Zuzza”, da Calvaruso, come per il seguente biglietto di giustizia: “Ill.mi Sig.ri Gov.e e Congiunti della Ven.e Compagnia del SS.mo Crocifisso dei Bianchi” Ill.mi Signori Padroni Colendissimi. Essendo stato da S.E. a relazione del Tribunale della R.G.C. Criminale condannato a morte sulle forche Pasquale Bruno alias Zuzza di Calvaruso, reo convinto di più omicidi e di altri delitti, con dovegliesi poi recidere il capo e le mani, che si dovranno apporre nella terra di Bavuso. E siccome il Tribunale medesimo ha abbreviato il termine della Cappella, così dovrà lo stesso entrare in Cappella oggi stesso per eseguirsi la giustizia mercoledì 31 del cadente. Se ne passa perciò la notizia alle VV. S. Ill.me affinché colla loro solità pietà, e carità Cristiana lo assistano a ben morire conducendolo per la solita strada al solito luogo del patibolo mentre riverendole umilmente le bacio le mani. Delle VV. SS. Ill.me Palermo 29 agosto 1803 Divotissimo ed obbligatissimo Servidore Francesco Maggiore R.P.F.

- giugno 2003 – Francesco Venuto 1992-2003 (Riproduzione e utilizzo dei testi e delle immagini sono vietati)

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