Legge Pica
All'indomani dell'annessione delle Due
Sicilie al nascente regno d'Italia, all'indomani dei plebisciti-farsa
organizzati per dare una parvenza di legittimità alla conquista
militare, all'indomani dell'inizio della fine, i popoli duosiciliani
manifestarono il proprio dissenso verso il nuovo stato unitario e,
quando il ruolo di colonia, che l'Italia voleva assegnare al "meridione
liberato" divenne un prezzo troppo alto da pagare, uomini e donne
impavidi imbracciarono le armi per difendere la propria terra
dall'invasione "straniera", dando vita a quel movimento di resistenza
che i conquistatori combatterono definendolo, con l'intento di svilirlo
agli occhi dell'opinione pubblica, "Brigantaggio".
Il più noto provvedimento legislativo che lo stato italiano adottò per reprimere i fenomeni di resistenza fu la legge Pica del 15 agosto 1863. Presentata come "mezzo eccezionale e temporaneo di difesa"
(difesa da chi? Dai cittadini che non riconoscono la legittimità
dell’invasore occupante?), la legge fu, invece, più volte prorogata ed
integrata da successive modificazioni e decreti attuativi, rimanendo in
vigore fino a tutto il 1865.
Paradossalmente, il
proponente di questo provvedimento fu proprio un "meridionale": il
deputato abruzzese Giuseppe Pica, che, così come fecero tanti altri
"meridionali", si asservì all'invasore per continuare ad occupare un seggio in parlamento.
Proclamazione dello stato d'assedio
La
legge Pica seguiva, di circa dodici mesi, la proclamazione, da parte
del governo, dello stato d'assedio nelle province meridionali, avvenuta
nell'estate del 1862. In pretica, lo stato italiano, per mantenerne il controllo, occupava militarmente i territori delle Due Sicilie, che altrimenti sarebbero sicuramente tornati ad essere uno stato indipendente.
Con lo stato d'assedio si era voluto concentrare il potere nelle mani dell'autorità militare al fine di reprimere l'attività di resistenza armata:
coloro i quali venivano catturati con l'accusa di brigantaggio, fossero
essi sospettati di essere ribelli o parenti di ribelli, potevano essere
passati per le armi dall'esercito, senza formalità di alcun genere.
Esercito e bersaglieri avevano licenza di ammazzare
chiunque non gli andasse a genio! Per contro, coloro che riuscivano ad
evitare il plotone di esecuzione non potevano più essere processati dai
tribunali militari e divenivano soggetti alla giustizia ordinaria, che,
in base alle variazioni apportate, nel 1859, al codice penale
piemontese, non prevedeva più l'applicazione della pena di morte per i
reati politici. La legge Pica, dunque, sospendendo, in sostanza, la garanzia dei diritti costituzionali
contemplati dallo statuto Albertino, aveva l'obiettivo di colmare
questo "vuoto", sottraendo i sospettati di brigantaggio ai tribunali
civili in favore di quelli militari. Il parlamento italiano approvò la
legge con la convinzione che attraverso di essa nessun partigiano
duosiciliano sarebbe sfuggito all morte o, quanto meno, al carcere.
Le province infette
In applicazione della legge Pica, con Regio decreto del 20 agosto 1863, venivano individuate le province definite come "infestate dal brigantaggio", che erano: Abruzzo Citeriore (odierna provincia di Chieti e parte della provincia di Pescara) , Abruzzo Ulteriore II (odierna provincia dell’Aquila e parte della provincia di Rieti), Basilicata, provincia di Benevento, Calabria Citeriore (odierna provincia di Cosenza), Calabria Ulteriore II (province di Crotone, Catanzaro e Vibo), Capitanata (provincia di Foggia), Molise, Principato Citeriore (provincia di Salerno), Principato Ulteriore (provincia di Avellino) e Terra di Lavoro
(odierna provincia di Caserta e area meridionale delle province di
Frosinone e Latina). Non ebbero l'onore di essere incluse in questa
lista: l'Abruzzo Ulteriore I (odierna provincia di Teramo e parte della
provincia di Pescara), la provincia di Napoli (dove il controllo sulla
popolazione era assicurato dalla nascente camorra foraggiata dallo
stato), Calabria Ulteriore I (odierna provincia di Reggio - anche qui
valeva un discorso simile a quello fatto per Napoli) e, solo
inizialmente, le sette province siciliane (poichè non interessate dalle
insorgenze di carattere legittimista, ma che ben presto verranno
ugualmente interessate dal provvedimento).
Per legge, dunque, il nuovo stato fu scpaccato in due: il centro-nord, dove vigeva lo Statuto albertino, e le Due Sicilie, dove i diritti costituzionali dei cittadini erano "momentaneamente sospesi".
La legge fu, infatti, adottata in deroga agli articoli 24 e 71 dello
Statuto: tali articoli garantivano, rispettivamente, il principio di
uguaglianza di tutti i sudditi dinanzi alla legge e la garanzia del
giudice naturale connessa al divieto di costituire tribunali speciali.
Sottomissione e sterminio
Con la legge Pica, venivano istituiti sul territorio i tribunali militari,
ai quali passava la competenza in materia di reati di brigantaggio. Il
nuovo corpo normativo stabiliva che poteva essere qualificato come
brigante (e, dunque, giudicato dalla corte marziale) chiunque fosse stato trovato armato
in un gruppo di almeno tre persone. Veniva concessa la facoltà di
istituire delle milizie volontarie per la caccia ai briganti ed erano
stabiliti dei premi in danaro per ogni brigante arrestato o ucciso. Ne
conseguì che pastori e contadini, che spesso si muovevano portando
indosso strumenti di difesa come pugnali o coltelli a serramanico, divennero d'un sol colpo criminali passibili delle severe condanne previste dal complesso normativo connesso alla legge Pica.
Le pene comminate ai condannati andavano dall'incarcerazione, ai lavori forzati, alla fucilazione. Veniva punito con la fucilazione
chiunque avesse opposto resistenza armata all'arresto, mentre coloro
che non si opponevano all'arresto potevano essere puniti con i lavori forzati
a vita o con i lavori forzati a tempo, salvo, però, maggiori pene,
applicabili nel caso in cui costoro fossero stati riconosciuti colpevoli
di altri reati. Coloro che prestavano aiuti e sostegno di qualsiasi
genere ai briganti potevano essere, invece, puniti con i lavori forzati a
tempo o con l'incarcerazione. Veniva punito con la deportazione
chiunque si fosse unito, anche momentaneamente, ai gruppi qualificati
come bande brigantesche. Erano, invece, previste delle attenuanti per
coloro i quali si fossero presentati spontaneamente alle autorità.
Veniva, infine, introdotto anche il reato di eccitamento al
brigantaggio.
Nelle province che lo stato definì "infette", venivano istituiti i Consigli inquisitori (i
cui componenti erano il Prefetto, il Presidente del Tribunale, il
Procuratore del Re e due cittadini della Deputazione Provinciale) che
avevano il compito di stendere delle liste con i nominativi dei briganti individuando così i sospetti che potevano essere messi in stato d'arresto o, in caso di resistenza, uccisi: l'iscrizione nella lista, infatti, costituiva di per sé prova d'accusa.
In sostanza, veniva introdotto il criterio del sospetto: in base al
quale divenne possibile per i "liberali" avanzare accuse senza
fondamento, per consumare vendette private, per liberarsi degli
oppositori politici, per accrescere i prorpi profitti... per ammazzare
il "terrone scomodo"!
La legge, per di più, aveva effetto retroattivo:
in altre parole, era possibile applicare la legge Pica anche per reati
contestati in epoca antecedente la promulgazione della legge stessa.
La Sicilia
Attraverso le successive modificazioni, la legge Pica fu estesa anche alla Sicilia,
pur essendo assente sull'isola il grande brigantaggio legittimista che
caratterizzava le province napoletane. In particolare, l'obiettivo del
governo era combattere il fenomeno della renitenza alla leva militare: divennero, infatti, perseguibili i renitenti, i loro parenti e, persino, i loro concittadini (attraverso l'occupazione militare di città e paesi). Alla sospensione dei diritti costituzionali, dunque, si accompagnavano misure come la punizione collettiva per i reati dei singoli e il diritto di rappresaglia contro i villaggi: veniva introdotto il concetto di "responsabilità collettiva" (sic)! Venivano adoperati metodi da colonialismo!
Chi si oppose fu ignorato
Già durante la fase di discussione, fu subito chiaro che la nuova legge avrebbe dato adito ad errori ed arbitri di ogni sorta: il senatore Ubaldino Peruzzi, infatti, notò come il provvedimento fosse «la negazione di ogni libertà politica».
Al pugno di ferro prospettato dalla Destra storica, il Senatore Luigi
Federico Menabrea rispose, invece, con una proposta totalmente
alternativa. Il Menabrea, come soluzione al malcontento popolare e alle
insurrezioni che seguirono l'annessione delle Due Sicilie al Regno
d'Italia, propose di stanziare 20 milioni di lire per la realizzazione
di opere pubbliche al Sud. Il piano del Menabrea, però, non ebbe alcun seguito, poiché il parlamento italiano preferì il pugno di ferro, preferì investire nell'impiego delle forze armate, preferì sterminare chi ad esso si opponeva.
Nonostante la scelleratezza del provvedimento legislativo fosse stata apertamente denunciata, la legge fu ugualmente approvata, e immediatamente dagli stessi contemporanei furono riconosciuti gli abusi e le iniquità a
cui essa diede adito. Nella seduta parlamentare del 29 aprile 1862, il
senatore Giuseppe Ferrari affermava: «Non potete negare che intere famiglie vengono arrestate senza il minimo pretesto; che vi sono, in quelle province, degli uomini assolti dai giudici e che sono ancora in carcere. Si è introdotta una nuova legge in base alla quale ogni uomo preso con le armi in pugno viene fucilato. Questa si chiama guerra barbarica, guerra senza quartiere. Se la vostra coscienza non vi dice che state sguazzando nel sangue, non so più come esprimermi».
Allo stesso modo, nel 1864, Vincenzo Padula scriveva: «Il tempo che si dà la caccia ai briganti è una vera pasqua per gli ufficiali, civili e militari; e l'immoralità dei mezzi, [...], ha corrotto e imbruttito. Si arrestano le famiglie dei briganti, ed i più lontani congiunti; e le
madri, le spose, le sorelle e le figlie loro, servono a saziare la
libidine, ora di chi comanda, ora di chi esegue quegli arresti».
Esiti
La legge Pica non faceva alcuna distinzione
tra comuni delinquenti, partigiani, contadini, collaborazionisti veri o
presunti. Essa, fra fucilazioni, morti in combattimento ed arresti, eliminò da paesi e campagne circa 14.000 briganti o presunti briganti: per effetto della legge e del complesso normativo ad essa connesso, fino a tutto il dicembre 1865, si ebbero 12.000 tra arrestati e deportati, mentre furono 2.218 i condannati. Nel solo 1865, furono 55 le condanne a morte,
83 ai lavori forzati a vita, 576 quelle ai lavori forzati a tempo e 306
quelle alla reclusione ordinaria. Questi dati, desunti dai pochi
documenti ufficiali sfuggiti agli archivi militari, lasciano presupporre
una sottostima del reale numero delle vittime. In
generale, la guerra civile eufemisticamente definita "lotta al
Brigantaggio", impegnò un significativo "contingente di pacificazione": inizialmente esso constava di centoventimila unità, quasi la metà dell'allora esercito unitario, poi scese, negli anni successivi, prima, a novantamila uomini e, poi, a cinquantamila.
Nel 1865, la legge Pica fu abrogata: nonostante il suo rigore, le iniquità e le violenze, essa non riuscì a portare i risultati che il governo si era prefissi, non riuscì ad annichilire le insorgenze indipendentiste: i
briganti, infatti, non furono piegati e le loro attività insurrezionali
perdurarono negli anni successivi al 1865, protraendosi fino al 1870.
AnTuDo
ANimus TUus DOminus
Il coraggio è il tuo signore
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